Il jazz non è qui semplice oggetto di contemplazione estetica, ma motore di consapevolezza, strumento di narrazione identitaria e ponte fra le arti. Una sorta di «discomentario» che non si limita a raccontare la storia di un genere: rivendica, al contrario, la vitalità di un linguaggio sonoro, quale forma di vita, di comunità e di dialogo intermediale.
// di Francesco Cataldo Verrina //
«La Cantina, altri appunti sul Jazz» si presenta come un’opera dalla forte densità culturale e affettiva, in cui si intrecciano percorsi biografici, sensibilità artistiche ed una vocazione profondamente documentaria. Il progetto, pubblicato da Alfa Music, nasce da un’interazione empatica ed intellettuale tra i vari promotori e si dipana lungo un itinerario che fonde cinema, musica e memoria in una narrazione fitta di rimandi, atmosfere e consapevolezze urbane. Parliamo di un progetto che raccorda suono e immagine, dove il cuore dell’opera risiede nella sua struttura dialogica: l’alternanza tra le composizioni musicali e le testimonianze visive e orali tratteggia un affresco polifonico in cui la città di Bologna diviene non solo sfondo, ma soggetto narrante. È proprio la città felsinea con i suoi contrasti stagionali, i portici storici, la stratificazione culturale e la tensione tra tradizione e modernità, a fornire lo spazio semantico e sensoriale in cui germinano i brani e le riflessioni. Le composizioni, nate in parte da esperienze dirette e in parte recuperate dal passato creativo dell’autore, riflettono un jazz errante, che abita la città come un vagante flâneur.
Il jazz che diventa memoria attiva ed interattiva: il titolo stesso, La Cantina, funziona come metafora esemplare: da un lato evoca il luogo fisico dove il vino matura e si conserva il prezioso, dall’altro richiama una dimensione simbolica, legata alla memoria affettiva, alla tradizione e alla trasmissione intergenerazionale, ma soprattutto evoca il luogo per antonomasia delle jam session. In tale cornice, il jazz viene inteso non solo come linguaggio musicale, ma come forma di coscienza storica e strumento di archeologia culturale. L’ultimo brano della raccolta, «Gabriel’s Original Jazz Band Tune», si pone come epifania affettiva e generativa, dichiarando esplicitamente l’intento di gettare un ponte tra futuro e passato, tra visione e radicamento. Il valore documentario dell’opera non può essere trascurato: in continuità con i precedenti lavori «Compro oro» e «Cocktail bar», anch’essi dedicati ad epicentri del jazz italiano come Torino e Roma, La Cantina assume la forma di un tassello indispensabile per una mappatura storica e affettiva del vernacolo jazzistico nel nostro Paese. L’attitudine nel creare scene di vita quotidiana, scorci di spontaneità urbana contribuisce a creare un «neo-realismo musicale”, che si rifà esplicitamente a «Appunti per un film sul jazz» di Gianni Amico, ma che trova nella contemporaneità un nuovo respiro.
L’opener, «La Cantina», diventa il manifesto poetico dell’intero progetto, delineandosi attraverso una struttura narrativa ampia e dal respiro simile ad una suite cinematografica, in cui le frasi del sax tenore di Polinelli sussurrano intimamente al trombone di Renzetti. L’atmosfera evoca un lento dischiudersi della memoria: è jazz da sotterraneo, non solo per la suggestione del titolo, ma per la capacità di evocare profondità emotive e luoghi celati. La scrittura è colta, mai autoreferenziale, e restituisce la sensazione di un jazz «pensato», ma vivo. Atmosfera: evocativa, sotterranea, meditativa; struttura: A-B-A con intermezzi improvvisativi. Il costrutto si articola in una forma tripartita, con un tema iniziale esposto al sax tenore su armonie sospese. Il trombone risponde con controcanti lirici, mentre il pianoforte interviene su un registro percussivo ma contenuto, quasi a suggerire lo scricchiolio di vecchie scale da cantina. Si notano modulazioni tonali leggere, con un passaggio dal modo minore a un maggiore ambivalente nella sezione centrale. L’improvvisazione si sviluppa su una progressione armonica discendente che richiama atmosfere noir. «Fireball», componimento dal carattere più energico e nervoso, è forse il più metropolitano della raccolta. Il tema è incisivo e percussivo, quasi esplosivo come suggerisce il titolo, e s’inerpica su alture sonore che accennano all’hard-bop con venature cinematiche, dove il pianoforte di Fedeli cesella linee ritmiche affilate, mentre la sezione ritmica imprime un senso di corsa e discontinuità. «Fireball» sembra raccontare l’inquietudine e il dinamismo della Bologna in transizione: dalle cantine alla digitalizzazione. Atmosfera: energica, metropolitana, nervosa; struttura: head-solos-head, con bridge libero, in cui il brano parte da un riff ritmico ostinato del piano e della batteria in tempo dispari (7/8 alternato a 4/4) che crea una tensione propulsiva. Il tema è sincopato e frammentato, con ampio uso di intervalli di quarta, mentre le sezioni solistiche sono contrappuntate da stop-time e dai riff del basso elettrico. L’assolo di sax sfrutta la scala diminuita e modulazioni rapide, suggerendo uno stile post-bop spinto al limite dell’espressionismo timbrico.
«Modai», assiepata nella sua abissale liricità, reca in calce un nome esotico, forse un acronimo o un’evocazione intima, che accompagna una ballata dal sapore quasi mediterraneo. Il fraseggio è morbido, i timbri caldi. Il brano ha un andamento circolare, ipnotico, che sembra voler trattenere il tempo. C’è in «Modai» una sorta di sospensione gentile: come se si camminasse sotto i portici al tramonto. Atmosfera: lirica, raccolta, contemplativa; struttura: tema continuo con variazioni interne, costruito su un ciclo armonico di quattro accordi in 6/8, con largo uso di sospensioni (9a, 11a) e colore modale dorico. Il sax di Polinelli ed il trombone di Eugenio Renzetti s’intrecciano in un gioco di domande e risposte, mentre il pianoforte lavora per accenni melodici, usando clusters delicati e pedali lunghi. Una particolare attenzione va all’uso del silenzio come elemento strutturale, che nella scrittura jazzistica viene raramente esplorato con questa sensibilità. «Onirica, il cui titolo è dichiarazione d’intenti, è il componimento più esplorativo e visionario del disco, imperniato su una colonna vertebrale armonica liquida, spaziosa, e propedeutica all’improvvisazione controllata, nonché ad un uso più libero delle dinamiche e delle tensioni timbriche. È la traccia che più si avvicina alla dimensione spirituale del jazz, lasciando presagire un dialogo introspettivo con l’inconscio. La forma è fluida, come i sogni cui si ispira. Atmosfera: rarefatta, visionaria, simbolista; struttura: forma libera, quasi aleatoria, forse il passaggio più sperimentale del concept. Si comincia con un’armonia fluttuante ottenuta tramite gli accordi aperti del pianoforte di Massimo Fedeli e gli armonici naturali del basso di Alessandro Marino. Il sax entra con intervalli lontani (nona, tredicesima), simili a squarci sonori. L’andamento è non-metrico nei primi tre minuti, quasi ambientale, poi si entra in una zona centrale improvvisativa, dove i musicisti convergono sull’ostinato ritmico della batteria di Francesco «Cina» Calogiuri, che richiama certe strutture ornettiane. La chiusura è affidata a un cluster dissonante «sparato» in dissolvenza.
«Tramonto in via Fusco» è una composizione dal potente impianto descrittivo, quasi impressionistico. La scena evocata risulta realistica e poetica al contempo: si percepiscono le sfumature aranciate della luce, la quiete urbana, la solitudine gentile del crepuscolo. Polinelli qui lavora per sottrazione, privilegiando un fraseggio misurato, intimo, in equilibrio tra malinconia e tenerezza. È un piccolo racconto da ascoltare ad occhi chiusi. Atmosfera: impressionistica, nostalgica, crepuscolare; struttura: A-A-Coda. La melodia principale è affidata al trombone, che la intona con un suono ovattato e mutizzato, mentre il pianoforte utilizza accordi aperti in stile Bill Evans, con ampio uso della nona maggiore e della sesta. Il tempo è lento, quasi rubato, con la batteria che interviene attraverso pennellate di spazzole. La struttura potrebbe essere scomposta, partitura alla mano, in cellule tematiche minime, ognuna delle quali racconta uno scorcio emotivo del paesaggio urbano. «Gabriel’s Original Jazz Band Tune» costituisce una chiusa inaspettata e luminosa, dove il jazz cambia pelle: la formazione, con banjo di Gino Cardamone e tuba di Edgar Dutary e la batteria di Maurizio Boco, rimanda alle origini New Orleans del genere, in un’atmosfera festosa e affettuosa. È un affresco affettivo e dichiaratamente naïf, ma anche simbolico: un ritorno alle radici per guardare avanti, dedicato alla nascita e all’infanzia. L’omaggio a Pupi Avati è implicito ma potente, con richiami alle sue colonne sonore in equilibrio tra malinconia e ironia. Atmosfera: festosa, retrò, affettuosa; struttura: forma classica in 32 battute (AABA), stile dixieland. La composizione si rifà esplicitamente al jazz primigenio: banjo, tuba e rullante creano un tappeto sonoro che rievoca l’infanzia del jazz. Il tema è cantabile, ricco di blue notes, con frasi marcate a ritmo di two-beat. Interessante risulta l’arrangiamento polifonico: tutti gli strumenti hanno momenti di esposizione simultanea, secondo la prassi dell’improvvisazione collettiva. Un piccolo gioiello stilistico e simbolico, come una dedica incisa a mano su un vecchio 78 giri. Con «La Cantina, altri appunti sul Jazz», Andrea Polinelli e i suoi pards promulgano un’opera che è tanto un viaggio polisensoriale, quanto un gesto politico-culturale. Il jazz non è qui semplice oggetto di contemplazione estetica, ma motore di consapevolezza, strumento di narrazione identitaria e ponte fra le arti. Una sorta di «discomentario» che non si limita a raccontare la storia di un genere: rivendica, al contrario, la vitalità di un linguaggio sonoro, quale forma di vita, di comunità e di dialogo intermediale.
