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La crisi della pubblicità non è forse solo crisi di investimenti, ma nasce da una diffusa insoddisfazione verso i media in generale. Tranne alcuni modelli di eccellenza, l’intero universo dei mass media, dalle tigri di carta ai social network, sembra essere pervaso da un appiattimento sull’ovvio ed uno smodato desiderio di sensazionalismo che porta uomini e mezzi a scivolare sul piano inclinato della mediocrità.
Gli ultimi anni sono risultati nefasti per quanti operano nel settore della comunicazione: da un lato l’affermazione delle nuove tecnologie ed il moltiplicarsi delle piattaforme che hanno modificato le tradizionali «regole d’ingaggio» e le modalità d’impiego; dall’altra una cattiva immagine di giornalisti e conduttori TV, divenuti cani da riporto della peggiore politica, degli intellettuali trasformatisi in cantastorie del potere e degli operatori a vari livelli asserviti alla quotidiana pratica del pettegolezzo.
Mentre cresce la necessità di un’informazione più obiettiva ed equidistante, forse completamente distante dalla politica, l’incessante diffusione dei new media, eccessivamente volatili, e l’avvento di troppi «nuovi» editori improvvisati non produce un fattore di stimolo per il mercato ma solo di rallentamento.
Soggiogati dall’inerzia, i media appaiono incapaci di attrarre investimenti pubblicitari di qualità: in riferimento alla comunicazione commerciale, si potrebbe parlare di «fattore intasamento» determinato da un’offerta decisamente sproporzionata rispetto alla domanda…
Per comprendere meglio talune asserzioni, sarebbe opportuno fissare almeno un concetto: «la pubblicità, intesa come advertsing, non è un mezzo di comunicazione a sé stante» ma, al di là della sua funzione pro-attiva, costituisce solo un vettore di contenuti, ossia una variabile dipendente da altri media che ne veicolano i messaggi.
Oggi l’atteggiamento dominante, almeno in Italia, nel risolvere le problematiche della pubblicità sembra far leva su taluni assunti di base: 1) litighiamoci aspramente sopra e adottiamo la soluzione di chi vince o di chi ha più forza per imporsi, ossia quella che, apparentemente, dovrebbe pagare nell’immediato; 2) ignoriamo il problema, che tanto, prima o poi, si risolve da sé, o finisce nel dimenticatoio; 3) ricamiamoci sopra lasciandoci imprigionare nel concetto di «analysis paralysis» , con l’intento di cavare in fretta e furia qualche «ragno dal buco» da mostrare ai committenti, spesso più frettolosi dei creativi. In fondo, la tecnica del mago provetto in grado di tirare fuori conigli o tortore dal cilindro non è così deleteria come potrebbe sembrare: costituisce la modalità più immediata ed intuitiva che, basandosi su euristiche scorciatoie di pensiero, consente di elaborare rapide valutazioni sulla scorta di convinzioni individuali o di esperienze pregresse.
Nella maggior parte dei casi, suddetta strategia permette di trovare velocemente, se non la migliore delle soluzioni possibili, una soluzione alquanto plausibile. Un pensiero brillante, non imprigionato nel rigore di una procedura e capace di trovare un inatteso uovo di colombo grazie ad un insight, ossia una sorta d’improvvisa illuminazione creativa, dovrebbe costituire, però, un’eccezione e non una regola.
Il deterioramento dei media sembra abbia prodotto anche uno scadimento dei supporti pubblicitari alimentando, come un mantice, la fiamma del «disinvestimento» da parte delle imprese.
Il fragore mediatico, particolarmente in televisione, surclassa costantemente il flusso pubblicitario che, quando non è avvertito dal fruitore come un ennesimo fastidio, diventa un momento di «decompressione» : la soglia dell’attenzione si abbassa e il cosiddetto «trasferimento della sensazione» finisce per essere vanificato.
Perfino i titoli altisonanti di certa stampa o i sensazionali video della Rete o altre demoniache presenze posseggono la forza di occultare i riquadri ed i banners pubblicitari.
Per dirla in soldoni, il mondo del giornalismo, della pubblicità, dell’editoria e dei vecchi e nuovi media sono strettamente legati al medesimo cordone ombelicale, fratelli-coltelli e figli della stessa genitrice.
La crisi c’è, la congiuntura è pesante, la globalizzazione impazza, ma l’inadeguatezza dei mezzi rende ancora più difficile la vita di chi opera nel campo della pubblicità.
Se la pubblicità rantola nel buio, in parte, le colpe vanno attribuite al roboante impero dei media che, oltre a moltiplicare le piattaforme e i mondi virtuali possibili, non riesce ad indicare strade percorribili ed approdi sicuri alla pubblicità che, oltre a garantire la propria sussistenza, garantisce (e garantirebbe meglio) la sopravvivenza dei mezzi che la veicolano.
La pubblicità è costretta a dare un messaggio, comunicando piacere ed imprevedibilità, necessita di una realtà «eufemizzata» , distante dai conflitti e dalle negatività. Per contro, la mancanza di autorevolezza dei media rispecchia la volontà di annientamento dell’avversario che si sente nella nostra società.
Se l’immagine sociale dei giornalisti, conduttori e mezzi tende al ribasso, il calo degli investimenti in comunicazione risulta direttamente proporzionale al calo degli indici di ascolto e di gradimento da parte del pubblico soprattutto dei media tradizionali a tutto vantaggio di Internet.
La Rete, nonostante il trend attivo, non ha dato ancora quei frutti sperati, forse perché a molti potenziali investitori appare come una «neverland» senza legge, uno sconfinato territorio senza confini delimitabili e totalmente privo di punti di ancoraggio.
Gli scambi one-to-one e l’ampliarsi del «prosuming mediale» (produzione da parte di utenti dei contenuti informativi), l’incremento esponenziale dell’offerta di informazione porta, sovente, a confusione ed ansia da «over-information» e perdita di controllo.
Il Web ha innescato una selezione darwiniana di molti media tradizionali determinando il successo di nuove testate ed una crescente multimedialità dei prodotti editoriali, ma ha favorito, al contempo, la nascita prematura con rapida scomparsa di innumerevoli e insignificanti fenomeni che fanno capolino per poi scomparire come fuochi fatui.
A tal fine, la validità e la credibilità dei mezzi risulta ancora più necessaria oggi che si verifica un eccesso di informazione e di «mediatizzazione» . In futuro per il cittadino-consumatore sarà più difficile distinguere il vero dal falso e il professionista dall’impostore, tanto che la domanda di approfondimento, selezione e sintesi, interpretazione ed orientamento, norme di controllo e sanzioni diverrà sempre più pressante.
In futuro si dovrà migliorare il messaggio, scegliere bene i media, lavorare sulla qualità del contesto in cui si inserisce il messaggio e la credibilità del mezzo. La pubblicità, essendone la principale fonte di sostentamento, sembrava avesse asservito i media, ma questo le si è ritorto contro.
La perdita di attrattività editoriale di gran parte delle testate e di molte trasmissioni TV ha determinato il calo dell’identificazione e della fidelizzazione del pubblico, quindi l’indebolimento del medium quale veicolo di messaggi commerciali.
L’autentica svolta epocale sarà il definivo passaggio dalla pubblicità «colonialista» alla pubblicità interessata alla bontà del brand in relazione ai potenziali consumatori. Il recupero di credibilità dei media diventa una «conditio sine qua non» per gli investitori pubblicitari, che non dovranno più «colonizzare» i media, ma passa attraverso la qualità del prodotto editoriale e la cura del suo rapporto con i fruitori.
La pubblicità non solo sarà sempre indispensabile per i media, ma addirittura tenderà ad orientarli. In futuro gli investitori pubblicitari avranno bisogno di mezzi adeguati e credibili, diversamente non lo saranno neppure i messaggi attraverso di essi veicolati…
Francesco Cataldo Verrina