Un ponte tra mondi: tra la precisione ed il flusso, tra la scrittura e l’istinto, tra il gesto individuale e la coesione collettiva, un progetto che va ascoltato, certo, ma più ancora attraversato: come si attraversano le architetture, con lo stupore che solo ciò che è profondamente progettato riesce a provocare

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel rutilante panorama del jazz europeo, «A Long Trip 22» si staglia come testimonianza straordinaria della tensione tra architettura formale e improvvisazione lirica, incarnando l’estetica della «forma che pensa», tanto cara ai modernisti quanto ai mistici della struttura musicale. Il progetto, firmato da Claudio Fasoli e dal suo Samadhi Quartet, non è un semplice ritorno discografico: è un attraversamento, un itinerario in cui l’ascoltatore si perde come in una casa progettata per essere abitata e scoperta, stanza dopo stanza, suono dopo suono. Rispetto all’altro ensemble di Fasoli, il Next Quartet, questo progetto si fa più classicamente radicato, più legato a una gestualità jazzistica rigorosa ma mai accademica. Come nel suo recente saggio «Jazz. Architetture di un azzardo», anche in «A Long Trip 22» Fasoli si muove lungo un crinale sottile: l’azzardo formale è sempre presente, ma non è mai vuota trasgressione. La sua arte rifiuta la ripetizione, la stanchezza dell’abitudine, ma non cerca lo scandalo sonoro. È un pensiero musicale in costante movimento, che accoglie anche la normalità, se necessaria, o la linearità, purché autentica. «»

Ciò che colpisce da subito è l’approccio costruttivo di Fasoli, assimilabile a una visione bauhausiana del fare musica: qui, la forma non è gabbia, ma telaio espressivo. Le strutture armoniche, le geometrie dei brani e l’organizzazione dei timbri esprimono una progettualità coerente quanto mobile. Il titolo stesso suggerisce un tempo dilatato, un viaggio perpetuo, in equilibrio tra memoria e utopia. Registrato dal vivo a Roma nel 2022, l’album riscopre la voce di un ensemble rinnovato:il Samadhi si trasforma da quintetto a quartetto dalla fisionomia più concentrata e verticale: fuori il trombettista Michael Gassman e il contrabbassista Andrea Lamacchia, dentro Pietro Leveratto. Rimane invece salda la presenza del pianoforte di Michelangelo Decorato e la batteria Marco Zanoli. Fasoli non occupa la scena come un primattore, ma come un direttore d’orchestra invisibile, che dirige anche nel silenzio. I suoi interventi al sax tenore e soprano sono misurati e mai ornamentali: brillano per densità, equilibrio, e soprattutto per quella capacità rara di generare vuoto fertile attorno a sé. La sua voce è al tempo stesso opaca ed inventiva, lirica ma non retorica, lasciando al quartetto la responsabilità di costruire paesaggi sonori coerenti e imprevedibili. I brani non obbediscono a strutture canoniche. I quattro «Cluster» che punteggiano l’album sono autentici esperimenti di composizione estemporanea vigilata: la materia si piega all’azione collettiva, ma non si disgrega mai. «Sext» fluttua su orbite spiraliformi, mentre «Boerum Hill» rende omaggio allo Shorter più evocativo. «Magia Silenziosa», invece, incarna una poetica della sottrazione: è quiete consapevole, non languore.

La poetica di Fasoli non disdegna le consonanze, ma neppure le rifugge se sembrano banali: la sua forza sta proprio in una disciplina senza dogmi, che accoglie l’armonia quanto la dissonanza, purché funzionali alla verità del momento musicale. Questo lo rende un autore impossibile da etichettare, sempre proiettato verso nuove forme di significato sonoro, lontano da mode e feticci espressivi. Il Samadhi Quartet è una macchina musicale che lavora con rigore e slancio. Michelangelo Decorato al pianoforte regala profondità armoniche e freschezza nell’interazione. Leveratto e Zanoli formano una sezione ritmica che non accompagna: interpreta. La libertà è sempre presente, ma mai assoluta; è sorvegliata, incanalata, affinata. Ed è proprio questa tensione tra libertà e forma che definisce l’estetica dell’album: nessuna nota è lasciata al caso, eppure ogni nota sembra nata lì, per quel preciso istante. «A Long Trip 22» non è solo un esercizio di jazz maturo: è una lezione di responsabilità artistica. In un mondo sonoro saturo di effetti, Fasoli risponde con chiarezza, misura, e quel tipo di rischio che affonda le radici in una saggezza profonda. Il viaggio del quartetto è lungo, ma mai dispersivo. È rigoroso, ma non severo. È il passo lento di un’arte che non ha bisogno di urlare per farsi ascoltare. L’album si snoda come un itinerario sonoro policentrico, in cui ogni brano costituisce una stazione distinta del viaggio, ma in continuità armonica e concettuale con le altre. Al cuore del progetto risiedono i quattro Cluster, momenti di apparente improvvisazione libera, che fungono da snodi liquidi tra le porzioni più strutturate del programma.

«Cluster 1», che apre l’album, è più che una mera introduzione: è un punto di tensione emotiva essenziale, un equilibrio tra gesto e attesa. Il pianoforte disegna accordi sospesi, il sax tenore si muove per incursioni brevi ma pregnanti, mentre basso e percussioni tratteggiano una cornice drammatica ma mai eccessiva. In meno di tre minuti si delinea una poetica della rarefazione. «Prime» si presenta con un tema nobile, dai contorni shorteriani, che permette a Fasoli di esprimere un lirismo misurato, al limite della trance medianica, prima di cedere alla vigorosa solistica di Michelangelo Decorato. Il brano si configura come un prisma: swing, lirismo, dissoluzione tematica e ritorno. Qui, l’arte dell’arrangiamento si manifesta nel saper suggerire spazi, più che occuparli. «Boerum Hill», con la sua andatura hard-bop rivisitata, ribalta le aspettative. Il sax si defila, lasciando alla sezione ritmica il ruolo di motore energetico. La traccia sfugge ad una lettura strutturale lineare: vive di slanci e fratture, attraversa il conosciuto per approdare all’indefinito. «Bam» è un miracolo pianistico. Decorato danza in solitudine su armonie cangianti, in un’introduzione che profuma di classici moderni. Il brano si sviluppa come una ballad latente, malinconica senza patetismo. «Cluster 4» sospende ogni vincolo armonico: vibrazioni percussive aprono uno scenario spoglio, dove il sax soprano si staglia come voce solitaria in un paesaggio astratto, a tratti inquieto, mai sovraccarico. È un momento di pura esposizione del suono come materia grezza. «Sext», invece, si costruisce dal basso, letteralmente. Leveratto apre con un solo di contrabbasso che affonda nelle profondità del timbro. Il brano cresce come una spirale: le prime note puntilliste del piano, il soffio sospeso del tenore, e infine la convergenza degli strumenti in un moto drammatico ma lucidissimo. Il lessico free non è qui anarchia, ma scelta linguistica calcolata, tensione che si fa forma.

In «Cluster 2», sorprendentemente, emergono inflessioni quasi latine. La percussione a mani nude introduce un mood quasi rituale. Il soprano di Fasoli evoca lo spirito di Steve Lacy, per chiarezza ascetica e purezza di suono. Il risultato è un minimalismo solare, sostenuto da un interplay magistrale dove ogni fraseggio è risposta, ogni pausa è ascolto. «Con Magia Silenziosa» si ritorna alla forma ballata, ma priva di leziosità. È una lenta distillazione del sentimento, affidata ad un tema elegante. Decorato cesella il pianoforte con tatto sapienziale, mentre la ritmica disegna chiaroscuri, rivelando una profonda coscienza timbrica del collettivo. Qui il brano respira: si espande e si contrae come una narrazione notturna. «Cluster 3», è più rarefatto. L’intervento dell’arco sul contrabbasso e il successivo ingresso del sax tentano la coesione degli altri momenti improvvisativi, ma è forse solo un passaggio interlocutorio, una camera di decompressione. Infine, «Yet» che chiude il carteggio compositivo, con le sembianze di una ballad sospesa, dal respiro attenuato ma accogliente. Il sax intona linee essenziali, che si affacciano e si ritraggono. Quindi, senza strappi, avviene un’evoluzione: una lieve accelerazione lo trasporta in una zona post-bop dove emergono coloriture latine, quasi fosse un ricordo più che una presenza. È una fine che non è tale, ma trasformazione: come se il viaggio non finisse, ma si spegnesse in un’altra dimensione dell’ascolto. L’arte di «A Long Trip 22», inciso dal vivo nel 2022 ed appena pubblicato con il dal Parco della Musica Records, non è quella della sorpresa programmatica, ma della complessità sotterranea. Fasoli non costruisce labirinti, ma mappe. E in quelle mappe, ciascun brano è al tempo stesso punto cardinale e sentiero obliquo. La musica, qui, non pretende attenzione: la reclama con la sua sobrietà luminosa. Un disco da percorrere e ripercorrere, come si fa con le grandi architetture, mutevoli a seconda dell’ora, della luce, dello stato d’animo.

Claudio Fasoli
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