Sul piano storico, «Dizzy In Greece» si configura come testimonianza preziosa del ruolo assegnato al jazz nella diplomazia culturale statunitense del secondo dopoguerra.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Dizzy In Greece», secondo capitolo della saga diplomatica e musicale inaugurata da «World Statesman», rappresenta non soltanto un apice espressivo nella carriera di John Birks «Dizzy» Gillespie, ma anche un insuperato esempio di soft power politico-sonoro esercitato attraverso il linguaggio universale del jazz. Nonostante il titolo, scaturito della trionfale accoglienza ricevuta in Grecia, l’album fu registrato, tra il 1956 e il 1957, a New York, catalizzando in vinile l’energia di un ensemble in stato di grazia, coeso e incandescente, forgiato dall’esperienza transculturale del primo tour di Stato dell’American Jazz Band. Possiamo leggere il disco attraverso una doppia lente: estetico-musicale da un lato, storico-politica dall’altro. Da un punto di vista sonoro, la compagine orchestrale – impreziosita da protagonisti come Lee Morgan, Phil Woods, Benny Golson, Melba Liston e Charlie Persip – si esprime in un lessico bop maturo, contaminato da venature afrocubane (Tin Tin Deo) e soluzioni armoniche raffinatissime. Gli arrangiamenti di Quincy Jones, Ernie Wilkins e della stessa Liston conferiscono varietà timbrica e profondità contrappuntistica, plasmando ogni brano in un microcosmo orchestrale autosufficiente.

Ad esempio, «Hey Pete», brilla per inventiva e per un swing implacabile, mentre «School Days», nata come parodia del rock and roll, si trasforma in un carro armato ritmico capace di scuotere anche gli ascoltatori più disincantati. Ma è nell’esecuzione live ad Atene che l’album trovò la sua sublimazione simbolica: quell’episodio, in cui un pubblico ostile si convertì in giubilo collettivo, testimonia il potere metamorfico del jazz come linguaggio trasversale e apolitico, capace di superare barriere ideologiche e culturali. Sul piano storico, «Dizzy In Greece» si configura come testimonianza preziosa del ruolo assegnato al jazz nella diplomazia culturale statunitense del secondo dopoguerra. Idealmente collegato alla dimensione itinerante della band, la carica emotiva dei concerti e gli aneddoti di generosità spontanea raccontano di una «missione sonora» in grado di disinnescare tensioni e ricucire relazioni, ben oltre il mero intrattenimento.

Il Lato A si apre con «Hey Pete», arrangiato da Quincy Jones, che inaugura l’album con un blues solido e vibrante. La sezione fiati tratteggia un tappeto leggero ma incalzante, su cui si inseriscono gli assoli di Walter Davis, Billy Mitchell e, naturalmente, un Dizzy Gillespie in stato di grazia. La scrittura è brillante, quasi teatrale, con un interplay dinamico tra solisti e ensemble. Quincy Jones, demiurgo dell’orchestrazione, innesta un senso del groove urbano tipico del jazz post-swing, che strizza l’occhio al Count Basie più ritmico. «Yesterdays» è una ballad tratta dal repertorio standard, riletta in chiave orchestrale con l’arrangiamento di Howie Kravitz, un ponte tra l’estetica del songbook americano e la sensibilità melodica e armonica del cool jazz. L’impostazione richiama l’eleganza tersa di Gil Evans, mentre l’approccio solistico è da bop maturo. Phil Woods al sax alto è protagonista di un’esposizione limpida, lirica, seguita da interventi misurati e poetici di Frank Rehak e Gillespie, i quali dialogano con gusto cameristico. L’eleganza classica della melodia viene qui attraversata da un’intensità moderna. «Tin Tin Deo», capolavoro afro-cubano co-composto da Chano Pozo e riarrangiato per big band da Gillespie, diviene un ponte musicale tra Africa, Cuba e America. Anticipa i futuri sviluppi del jazz modale post-coltraniano e del world jazz. L’ossessione ritmica lo collega al folklore afro-caraibico più che alla tradizione afro-americana. Le percussioni sono intense penetranti, la sezione armonica è ariosa, mentre la linea melodica, quasi rituale, si muove su sospensioni modali. Marty Flax al baritono aggiunge spessore alla tessitura. «Groovin’ For Nat», un omaggio a Nat Hentoff firmato Ernie Wilkins, è costruito su una struttura rilassata ma swingante che rimanda a Duke Ellington nei fraseggi orchestrali, con interventi solistici che poggiano su un linguaggio hard bop sobrio. Dal canto suo, Gillespie abbandona l’iperbole e trova una dimensione più terrena e calda, alternandosi con Billy Mitchell e Walter Davis in un gioco di sfumature e variazioni tematiche che rivelano la padronanza collettiva del lessico bop. «Annie’s Dance», composto da Melba Liston, con un curioso richiamo a Edvard Grieg, è suite in miniatura. Melba adotta una scrittura sinfonica, con riferimenti persino al tardo romanticismo Si percepisce un’articolazione orchestrale che richiama la Third Stream, movimento ibrido fra jazz e musica eurodotta. L’architettura orchestrale è multilivello, quasi sinfonica. L’uso «vocale» della big band come strumento unico è un atto di audacia creativa. Degni di nota gli spunti improvvisativi di Charlie Persip, Mitchell e Gillespie.

Il Lato B prende il via con «Cool Breeze», componimento dal sapore notturno e urbano, costruito su una progressione blues, ma con sofisticazioni tipiche del bop, mostrando un equilibrio elegante tra architettura armonica e impeto solistico. Gli assoli sono affidati a Frank Rehak, Billy Mitchell e Gillespie, il quale dosando tensione e rilascio plasma un’esecuzione dalla linea espressiva ben modulata. La coda di Persip chiude con energia percussiva e senso narrativo. «School Days», inizialmente concepito come parodia del rock and roll, si rivela un esperimento sorprendente, con ritmiche marcate e timbri «caricaturali». È un concept teatrale, ironico, che abbraccia le estetiche del rhythm & blues primigenio e le deforma con la libertà del jazz. L’ironia si trasforma in energia pura grazie al drumming off-beat di Persip e alla sfrontatezza timbrica di Mitchell. L’irruenza ritmica destabilizza ma affascina, ricordandoci quanto il jazz sappia essere linguaggio di rottura. «That’s All», composto da Pete Anson, è il momento più intimo dell’album, reso vivo dal contributo di Billy Mitchell al sax tenore e Wynton Kelly al pianoforte, L’assolo di Lee Morgan è lirico e bilanciato, con una componente «conversazionale» tipica delle jam session. Un’atmosfera quasi da club, dove ogni frase è cesellata con cura. «Stable Mates», a firma Benny Golson, trova nell’incontro tra lo stesso Golson e Gillespie una sintesi perfetta di rigore e fantasia. Il tema è esposto con puntigliosità geometrica, ma gli assoli lo de-costruiscono con libertà controllata. Il tutto scorre con naturalezza e sobrietà, con una forte enfasi sull’equilibrio tra struttura e improvvisazione, tipica del pensiero compositivo hard bop della scuola di Philadelphia. «Groovin’ High» chiude l’album con uno standard bebop firmato dallo stesso Gillespie. L’arrangiamento di A.K. Salim offre il contesto ideale per le sortite brillanti di Phil Woods e dello stesso Gillespie. Un autentico manifesto del bop, dove rapidità, articolazione e interplay si fondono in un climax trascinante. L’energia, la velocità e il fraseggio confermano l’estetica di un Gillespie funambolico e preciso, figlio della rivoluzione Parker-Gillespie degli anni ’40. In sintesi, «Dizzy In Greece» non è solo un disco eccellente: è un documento antropologico, un trattato di pace in forma orchestrale, e uno dei vertici assoluti del Gillespie diplomatico e visionario.

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