Nel 1966 nacque Sly & the Family Stone, ensemble pionieristico non solo per la commistione stilistica tra rock psichedelico, soul, jazz, gospel e influenze latine, ma anche per la composizione inclusiva dal punto di vista razziale e di genere.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il 9 giugno, a Los Angeles, si è spento all’età di 82 anni Sylvester Stewart, universalmente noto come Sly Stone: poliedrico cantante, autore, produttore e carismatico leader del gruppo Sly & the Family Stone. Secondo una dichiarazione della famiglia, l’artista lottava da tempo contro una patologia polmonare. La stessa nota sottolinea come il suo «straordinario lascito musicale continuerà a risuonare e ispirare per generazioni».
Nato a Denton, in Texas, e cresciuto a Vallejo, in California, in una famiglia profondamente legata alla Chiesa di Dio in Cristo, Stone si avvicinò sin dalla tenera età alla musica gospel, fondando con i fratelli il gruppo The Stewart Four. Già a undici anni padroneggiava tastiere, chitarra, basso e batteria, mostrando un precoce talento polistrumentale che avrebbe definito la sua carriera. Durante l’adolescenza, formò un gruppo doo-wop interrazziale, The Viscaynes, e successivamente, in qualità di disc-jockey presso l’emittente KSOL, si distinse per una programmazione audace che includeva anche artisti bianchi, gesto innovativo per l’epoca. Parallelamente, lavorò come produttore discografico per Autumn Records, contribuendo al successo di artisti come Bobby Freeman.
Nel 1966 nacque Sly & the Family Stone, ensemble pionieristico non solo per la commistione stilistica tra rock psichedelico, soul, jazz, gospel e influenze latine, ma anche per la composizione inclusiva dal punto di vista razziale e di genere. Tra i loro successi si annoverano brani iconici come Dance to the Music, Everyday People e Family Affair. Emblematica la loro esibizione a Woodstock nel 1969, considerata una delle vette emotive di quell’evento epocale. Tuttavia, la carriera di Stone fu segnata da tensioni sociopolitiche e difficoltà personali, tra cui le pressioni ricevute da frange radicali come le Pantere Nere e il progressivo isolamento legato all’abuso di sostanze stupefacenti. Dopo lo scioglimento del gruppo, l’artista visse a lungo lontano dalla scena pubblica, salvo alcune apparizioni sporadiche nei primi anni Duemila, culminate nel conferimento del Grammy alla carriera nel 2017.
Le vibrazioni di un’America in transizione s’intersecano con il percorso umano e musicale di Sly Stone in modo emblematico, nonché con le correnti culturali e i conflitti sociali che hanno attraversato gli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e Settanta. Nato in un’epoca in cui le tensioni razziali erano ancora profondamente radicate nella società americana, Stone seppe immaginare – e realizzare – una forma di musica che fosse al tempo stesso un inno alla diversità e una sfida alle barriere dell’industria discografica. Nel pieno fermento del movimento per i diritti civili, la proposta musicale di Sly & the Family Stone assunse una valenza programmatica: una band interrazziale e intergenerazionale in cui uomini e donne condividevano palco e strumenti, incarnando un modello di coesistenza che anticipava gli ideali del multiculturalismo contemporaneo. Non era solo spettacolo: era una dichiarazione.
La loro esibizione all’alba a Woodstock nel 1969 – divenuta iconica non solo per la qualità musicale ma per la forza simbolica – rappresenta forse il momento più alto del connubio fra spirito collettivo, spiritualità laica e aspirazione alla libertà. Mentre l’America viveva la guerra del Vietnam, i moti studenteschi e le ferite ancora aperte degli assassinii di JFK e Martin Luther King, la musica di Stone oscillava tra estasi e disillusione. Negli anni Settanta, il suo tono divenne più cupo, più introspettivo: un riflesso delle ombre che si addensavano sull’America post-ideale. Eppure, anche nella sua fase di maggiore alienazione, Stone non smise mai di comunicare. Con arrangiamenti sofisticati, groove ipnotici e testi spesso ambigui, offrì una lente per osservare le contraddizioni del suo tempo. Più che un semplice musicista, Sly Stone fu un costruttore di linguaggi. Il funk che contribuì a codificare avrebbe aperto le porte a intere generazioni di artisti afroamericani. La sua eredità non vive solo nei vinili, ma nella struttura stessa del ritmo e della parola che oggi animano il soul moderno, l’hip-hop e gran parte della cultura pop globale.
Nel 1969 arriva «Stand!», una sorta di utopia sonora e di resilienza in forma musicale. Più che un semplice album, Stand! è un’esortazione. È Sly Stone che tende la mano all’ascoltatore e gli dice, senza fronzoli: «scegli chi vuoi essere e difendilo.» In un’America attraversata da tumulti civili, alienazione urbana e bisogno disperato di appartenenza, il disco si presenta come una proposta di comunità. Non una comunità perfetta, ma possibile. Fin dalle prime note della title-track, ci si ritrova immersi in un discorso morale travestito da canzone soul. Non c’è cinismo, ma fede — non religiosa, ma civile. Stone invita a credere nella giustizia, nel coraggio individuale, nel potere collettivo del «noi». L’album alterna pezzi brevi ed incisivi a composizioni più estese e sperimentali. Sex Machine, ad esempio, è una jam di quasi quattordici minuti che anticipa le strutture libere del funk e del jazz elettrico degli anni ’70.
Il cuore pulsante del disco è Everyday People, un brano talmente semplice nella costruzione da risultare rivoluzionario. È l’infanzia dell’uguaglianza in forma cantabile, una filastrocca di umanità. In un mondo che aveva già conosciuto le parole di King e le barricate delle Pantere Nere, Stone sceglie la via della gentilezza militante. Toccando il cuore del messaggio: l’uguaglianza tra gli esseri umani, al di là di razza, genere o condizione sociale. Il celebre verso «Different strokes for different folks» ( come dire, a ciascuno il suo) è diventato un motto generazionale. E poi c’è I Want to Take You Higher — non un semplice invito alla danza, ma una chiamata al superamento: delle barriere sociali, dei limiti emotivi, dell’inerzia. È un’ascesa collettiva scandita da groove e incitazioni, quasi una cerimonia laica. Non bisogna dimenticare Don’t Call Me N****r, Whitey, che va letto non come una provocazione gratuita, ma come uno specchio impietoso rivolto all’America. Stone non accusa, fotografa. Mostra l’assurdità del linguaggio dell’odio, accostando etichette razziali per farle esplodere nella loro vuotezza.
Musicalmente, Stand! è raffinato ma viscerale. Le linee di basso sono centri di gravità, le voci si alternano come in un coro gospel scomposto, gli arrangiamenti orchestrali si fondono con la spontaneità da jam session. Nulla è eccessivo, ma nulla è lasciato al caso. In sintesi, Stand! è il punto più alto dello Sly utopista, ancora convinto che la musica potesse redimere una nazione. L’ombra arriverà con l’album successivo (There’s a Riot Goin’ On), ma qui, nel 1969, c’è ancora luce. Una luce calda, imperfetta, ma terribilmente necessaria. In Stand!, Sly Stone è ancora l’architetto di una visione ottimista. Il disco pulsa di energia solare, groove danzabili, cori collettivi. È l’America che vuole crederci: crede nella pace, nella convivenza, nell’armonia razziale. Il funk, qui, è uno strumento di festa e di unione. Ogni brano è una dichiarazione: «siamo diversi, e va bene così.» La band è un simbolo di ciò che l’America potrebbe diventare. Stand! fu un successo commerciale e critico: raggiunse il tredicesimo posto nella classifica Billboard Top 200 e fu certificato disco d’oro nel 1969, poi platino nel 1986. Ma il suo impatto va ben oltre i numeri. L’album fu incluso nel National Recording Registry della Library of Congress per il suo valore «culturale, storico ed estetico» ed inserito più volte nella lista dei 500 migliori album di tutti i tempi secondo il mensile Rolling Stone. Le strutture musicali sono chiare, ordinate, mentre il ritmo in levare solleva e trascina l’ascoltatore in un ballo che è anche un’utopia possibile, ma con «There’s a Riot Goin’ On» (1971), il sogno si spezza dall’interno.
Quando, due anni dopo, Sly pubblica There’s a Riot Goin’ On, l’atmosfera è drasticamente mutata. Il titolo stesso è una dichiarazione — non c’è punto esclamativo, non c’è movimento: c’è stasi. C’è una rivolta in corso, sì, ma è muta, sotterranea, individuale. È l’America che ha perso l’innocenza, logorata dal Vietnam, dal razzismo persistente, dalla delusione politica post-1968. Musicalmente, l’album è torbido, destrutturato, a volte quasi claustrofobico. I nastri sembrano rallentati, i groove si fanno ipnotici, come se la musica stessa stesse cercando di resistere al collasso. Stone registra gran parte dell’album da solo, in uno stato di isolamento quasi psichico. Il funk diventa qui introspezione, disillusione, resistenza passiva.
Forse i due dischi rappresentano i due lati dello stesso sogno: mentre Stand! alza il pugno in segno di fratellanza, Riot lo stringe in un gesto di rabbia silenziosa. Il primo è collettivo, il secondo è isolato. Stand! crede nella funzione catartica del ballo; Riot lo trasforma in un automatismo stanco. Eppure, entrambi sono autentici: rappresentano con crudezza e poesia due stati dell’anima americana. In Stand!, l’ideale. In Riot, la caduta e l’inquietudine. Sly non si contraddice: si evolve, si consuma, si espone. La figura di Sly Stone resta emblematica non solo per l’innovazione musicale e la visione artistica, ma anche per la capacità di dare voce, attraverso il linguaggio sonoro, alle istanze di giustizia, uguaglianza e autodeterminazione che hanno attraversato gli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento. Con la sua arte, la sua musica ed il suo pensiero, Sly Stone ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama culturale americano.
