Un’opera imprescindibile non solo per i cultori del jazz, ma anche per chi intende comprendere l’evoluzione del linguaggio jazzistico italiano attraverso il prisma di una figura mitica come quella del trombettista dell’Oklahoma.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Shades Of Chet», pubblicato nel 1999 e oggetto di una raffinata ristampa su doppio vinile da 180g in edizione limitata, si sostanzia come una delle testimonianze discografiche più rilevanti del jazz italiano contemporaneo. Non si tratta soltanto di un omaggio commemorativo, bensì di un’opera intrisa di sensibilità interpretativa, rispetto filologico e acuta consapevolezza estetica. Il progetto nacque nel 1998, in occasione del decennale della scomparsa di Chet Baker, prendendo vita grazie all’inseminazione creativa di Enrico Rava e Paolo Fresu, sostenuti dal promoter Mario Guidi. Alla guida di un quintetto di capitani di ventura che include Stefano Bollani al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria – cinque nomi che, oggi, vantano il titolo di senatori a vita del jazz italiano – l’album propone una ricostruzione emotiva e stilistica dell’universo musicale bakeriano. Nel 2001 lo stesso ensemble tenne alcuni concerti, esibendosi ad Umbria Jazz ed al Montreal International Jazz Festival. Dalla performance di Montreal venne ricavato un album, Play Miles Davis pubblicato nel 2002 dall’etichetta francese Label Bleu.

L’operazione non indulge nella mera replica filologica. Al contrario, ciò che emerge è una rielaborazione colta e personale dell’eredità artistica del trombettista dell’Oklahoma. Le scelte di repertorio spaziano dai suoi brani più iconici, come My Funny Valentine Doxy, a composizioni meno consuete ma altrettanto evocative. L’approccio interpretativo dei due trombettisti, fissati rispettivamente sui canali sinistro (Rava) e destro (Fresu), offre una suggestiva dialettica timbrica che riflette due sensibilità affini ma distinte. Di particolare rilievo sono i due brani solisti — Retrato em branco e preto per Rava e You Can’t Go Home Again per Fresu, che costituiscono non solo un atto tributaristico, ma autentici momenti di introspezione lirica. L’album nel suo insieme riesce a evocare la poetica della fragilità e del disincanto tipica di Baker, restituendone l’essenza senza scadere nell’imitazione. Dal punto di vista tecnico, la registrazione interamente analogica, realizzata da Giulio Cesare Ricci con il sistema Signoricci, eleva ulteriormente il valore della nuova edizione. L’incisione su doppio LP è propedeutica ad una fruizione più ampia e profonda delle tracce, esaltandone la dinamica originaria e preservando l’autenticità timbrica. La recente riedizione del 2018 – oggi riproposta a supporto dell’esibizione dei cinque senatori in occasione del Summertime 2025 che coincide con il ventennale della Casa del Jazz di Roma – non si limita all’aspetto musicale e formale, ma si fa oggetto d’arte totale, pensato per un ascolto consapevole ed immersivo.

Il Lato A si apre con «Doodlin’» di Horace Silver, un classico dell’epopea hard bop. L’approccio del quintetto è asciutto ma intensamente swingante. Il dialogo fra i due trombettisti, con Rava sul canale sinistro e Fresu su quello destro, si dipana attraverso una sottile forma di call and response punteggiata da un’ironia implicita. Bollani costruisce il terreno armonico con leggerezza ludica, mentre Pietropaoli e Gatto garantiscono un groove pulsante e contenuto, perfettamente calibrato e adattivo. A seguire, «My Funny Valentine», la decorazione più emblematica del medagliere bakeriano, che diventa una lente attraverso cui leggere l’intero album. L’interpretazione è sussurrata, quasi sospesa, con una malinconia che non cede al sentimentalismo. Il tempo rubato e le dinamiche flessibili lasciano spazio ad un intenso lirismo. Rava e Fresu si alternano nel ruolo di voce principale, mentre Bollani sottolinea il foglio di via con accordi rarefatti che esaltano l’intimità emotiva del costrutto sonoro. Il Lato B comincia con «Anthropology» uno spiritello bebop serrato, firmato da Parker e Gillespie, che consente al quintetto la possibilità di mostrare il proprio virtuosismo tecnico. Tuttavia, non si tratta di mera esibizione muscolare: l’ironia e la citazione colta dominano, con linee melodiche destrutturate e frammentate, quasi a voler filtrare l’iconografia bop attraverso una lente postmoderna. «Retrato em branco e preto» (Rava solo) è cellula di intima riflessione. Enrico sceglie una composizione di Jobim per il suo omaggio in solitaria a Baker, esplorando la poetica dolente della melodia con un fraseggio arioso e vibrante. L’utilizzo del flicorno restituisce calore e introspezione, in un’ambientazione che richiama i domini chiaroscurali della musica brasiliana più raffinata. Il Lato A del secondo vinile prende il via con «Doxy», altro standard legato a Baker e Rollins, restituito al mondo degli uomini con piglio bluesy e un andamento rilassato. La sezione ritmica si muove con passo felpato, ballando metaforicamente attorno alla melodia, mentre i due fiati si rincorrono con frasi brevi ma taglienti, mantenendo un codice comunicativo diretto. In «You Can’t Go Home Again» (Fresu solo) il musicista sardo contrassegna esteticamente un’affresco di rara intensità esecutiva. L’omaggio a Don Sebesky è mediato da un uso controllato del timbro e da un’impostazione dinamica quasi cameristica. È un’ode alla vulnerabilità, alla fragilità che Baker sapeva trasformare in poesia sonora.

All’abbrivio del Lato B si affaccia sul proscenio «Line for Lyons» di quel Gerry Mulligan più vicino alle normative e ai dettami del cool jazz. I cinque sodali lo rileggono in scioltezza e con un sostentamento di swing controllato e virtuoso. Le dinamiche esecutive rimangono contenute e misurate, in un equilibrio perfetto tra forma e spontaneità. «Strike Up The Band» di Gershwin viene riletto in una chiave jazz più moderna. I cinque cavalieri senza macchia e senza paura fanno leva sul contrasto tra l’apparente immediatezza melodica del tema e le complessità ritmico-armoniche che lo sottendono, con la batteria di Gatto in grande spolvero ed un pianismo incalzante ed assertivo da parte di Bollani. «Donna», componimento dai marcati connotati afrologici, lascia intuire un omaggio implicito alla figura femminile nella poetica bakeriana. Il brano pulsa di energia latente, con un interplay dinamico tra fiati ed una retroguardia ritmica particolarmente coesa. È un epilogo che non cerca l’enfasi, ma lascia aperto il discorso, coerentemente con gli assunti basilari dell’album. «Shades Of Chet» s’impone dunque come un vero e proprio testo sonoro: un discorso musicale trans-generazionale, che si colloca idealmente tra lo studio musicologico e l’esegesi interpretativa. Un’opera imprescindibile non solo per i cultori del jazz, ma anche per chi intende comprendere l’evoluzione del linguaggio jazzistico italiano attraverso il prisma di una figura mitica come quella di Chet Baker, che a tutt’oggi, nel nostro paese, rimane il jazzista-intrattenitore più amato e commercialmente più remunerativo

Enrico Rava, Paolo Fresu, Stefano Bollani, Enzo Pietropaoli e Roberto Gatto (PH Agostino Mela)

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