«Genesis» di Elvin Jones, un disco che, pur chiudendo fuori dalla porta l’hard bop, diventava il vero punto di sutura fra grande tradizione della label e ciò che sarebbe stato il jazz degli anni a venire.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nella storia della Blue Note c’è uno spartiacque. Il 1967 fu un anno cruciale: Alfred Lion cedette le sue quote alla Liberty Records, passando la mano ed optando per una ritiro di lusso. Fino al ’67 conosciamo molti album pubblicati da questa etichetta e definiti all’unanimità come «capolavori» del jazz del secondo dopo guerra, in massima parte legati all’hard bop ed alle prime avvisaglie del post-bop. La lista sarebbe lunga, quindi, non volendo fare torto a nessuno, evitiamo di attardarci in lunghe citazioni. Quanti conosco realmente, però, la storia della Blue Note venuta dopo il distacco del suo principale fondatore? Dal canto suo, Francis Wolff, luogotenente e socio-fraterno di Alfred Lion, rimase in azienda come uomo-immagine e per garantire una parvenza di continuità nella produzione accompagnato da Duke Pearson, ma, a partire, dalla fine degli anni Sessanta, le cose cambiarono quasi radicalmente. La Blue Note si aprì ad altri generi e ad altre tendenze che, in quei giorni arrembanti di repentini mutamenti, maturavano in ambito jazzistico, e non solo. Per molti cultori del jazz post-bellico sembrava che la Blue Note si fosse dileguata nel nulla e che avesse esaurito il suo corso. Con il nuovo assetto organizzativo, teso ad assecondare i capricci di un mercato più generalista, che tagliava trasversalmente il jazz californiano, il post-bop e l’allora più recenti dettami della musica afro-americana vicina al soul e al funk, sembrava che la gloriosa «etichetta blue» non fosse più in grado di distillare dei capolavori, quanto meno dei dischi distintivi rispetto alla media, al netto di alcuni ritrovamenti ripescati in quel giacimento aurifero che erano gli archivi della vecchia casa madre: tanti i piccoli capolavori incisi molti anni prima, tenuti nel cassetto da Lion, vennero riportai alla luce dai nuovi maggiorenti dell’etichetta. In effetti, specie dai primi anni Settanta in avanti, in Casa Blue Note i fenomeni discografici da classifica cominciarono a scarseggiare. Nel 1969, l’etichetta era passata di mano, divenendo di proprietà della United Artists Records fino al 1979, anno in cui venne ceduta baracca, nastri e burattini alla EMI.

Francis Wolff che, con le sue iconiche fotografie aveva documentato la storia per immagini dell’etichetta, morì nel 1971, ma per un insolito gioco del destino riusci a produrre uno dei pochi, se non l’unico autentico capolavoro della nuova Blue Note: «Genesis» di Elvin Jones, un disco che, pur chiudendo fuori dalla porta l’hard bop, diventava il vero punto di sutura fra grande tradizione della label e ciò che sarebbe stato il jazz degli anni a venire. Elvin Jones, proveniente da una una dinastia di musicisti, fratello minore di Thad ed Hank, era stato un ingranaggio chiave nell’evoluzione del jazz moderno: considerato, quasi all’unanimità della critica, colui che ne aveva ridefinito la pulsazione ritmica. Elvin distillava un sound robusto e timbricamente complesso, sulla scorta di un massiccio impiego di terzine e poliritmie, spalmando il beat su tutti gli elementi della batteria, dando l’idea che le braccia si moltiplicassero ed agissero distintamente, influenzando così, per loro stessa ammissione anche innumerevoli batteristi rock come Ginger Baker, Bill Bruford e John Densmore dei Doors. Dal 1960 al 1966, Elvin Jones fu l’uomo chiave e la macchina del ritmo nel momento di massima espressione creativa del quartetto di John Coltrane. Dopo più di cinque anni passati insieme, Elvin ruppe il sodalizio con Trane, che gli aveva messo accanto Rashied Alì come secondo batterista. Al suo sassofonista-leader, nel 1966, dedicò – non si sa bene se devotamente o ironicamente – l’album «Dear John C.», pubblicato dalla Impulse! Records. Da quel momento, intensificò la sua carriera di band-leader, alternata all’insegnamento, fino ai primi anni 2000. Già negli Sessanta, il prolifico Jones aveva dato alle stampe alcuni dischi come solista che ne caratterizzavano l’inconfondibile metodo percussivo: «Elvin!» (Riverside Records, 1961), «Illumination!» (Impulse! Records, 1963), «And Then Again» (Atlantic Records, 1964), «Live At The Village Vanguard» (Enja Records, 1968), solo per citarne alcuni, ma fu il suo approdo alla Blue Note /United Artist nel 1969 con «The Prime Elements» a dare un nuovo impulso alla sua carriera che culminerà nel capolavoro «Genesis» del 1971. Un disco che lo affrancherà dalle catene dell’hard bop, anticipando di oltre cinquant’anni quel sound che oggi è possibile sentire solo nei club newyorkesi, in cui il jazz ipermodale incontra un free form elegante e mai eccessivo o forzato nella narrazione e nel modulo esecutivo.

Registrato nel 1971 al Rudy Van Gelder Studio, ma finalizzato a Los Angeles, in «Genesis», Elvin Jones si avvalse del sostegno di tre sassofonisti (Joe Farrell tenore e soprano, Dave Liebman tenore e soprano e Frank Foster sax tenore e flauto contralto) e del bassista Gene Perla, autore di due dei cinque lunghi brani contenuti nell’album. Uno a testa, gli altri tre furono composti da Jones, Liebman e Foster. Un album di inediti legati da una sorta di fil rouge ideale che fanno di «Genesis» un concept sopraffino, in cui, nonostante il groviglio di fiati, Jones rimase al centro dell’attenzione operando sul kit percussivo con una mano destra meno gravosa e un attacco di cassa più contenuto, almeno rispetto al suo standard muscolare e prominente. L’impatto grafico della copertina, frutto di una Blue Note declinante sulle strade della California – i tempi di Red Miles appaiono assai lontani – contrasta apertamente con l’inventiva degli esecutori e la pregnanza dei contenuti dell’album che sembra essere avvolto da un’aura quasi cinematografica: la colonna sonora di un racconto metropolitano che si proietta verso territori inaspettati, tra lampi di genio improvvisativi e ampi spazi ritmico-armonici, i quali si dilatano progressivamente con una forza tranquilla che risucchia progressivamente il fruitore. Essendo «Genesis» un progetto pianoless, lontano dalle abitudini dell’epoca in cui si tendeva debordare nel caos, il basso di Gene Perla, animato da una forza tranquilla, sembra assumere un ruolo guida a livello accordale, mentre il groove di Jones, preciso e millimetrato, gestisce abilmente il traffico, al fine di evitare l’esuberanza degli strumenti a fiato, che appaiono costantemente ben canalizzati e mai fuori dalle righe. Si pensi ad una strada sui cui sfrecciano in varie direzioni numerosi bolidi a velocità variabile senza mai scontrarsi: Foster, Liebman e Farrell, s’incrociano e si avvicinano quasi a sfiorarsi, ma evitano sovrapporsi entrando in competizione, soprattutto ognuno rispetta la propria posizione sul tracciato, non rinunciando al proprio animus pugnandi. Ciononostante, tutto il line-up agisce per istinto, quasi che non esistesse una convenzione scritta, in un alternarsi di atmosfere lente e progressive o spinte con parsimonia in un ambito non distante dal free form. Tutto ciò emerge da «Three Card Molly», il brano scritto da Jones, che diventa l’indicatore di marcia e un condensato di tutti gli aspetti più significati dell’album, dove la «vecchia scuola» non è invitata quasi mai al banchetto sonoro. Si va oltre il post-bop, espandendone gli orizzonti, si deraglia verso il funk ed un proto-free a controllo numerico, che non perde il legame ombelicale con la melodia, così il passaggio alla traccia successiva, «Cecilia Is Love», a firma Foster, viene annunciata dal suo flauto contralto, tanto da sembrare un passaggio naturale dalla metropoli alla campagna, in una situazione apparentemente bucolica. Il ritorno al fragore urbano non si fa attendere, mentre il basso di Perla s’ingrossa mostrando ai sodali del front-line le scale sui cui scendere e salire, mentre, dal canto suo, Elvin distilla un groove dal taglio morbido, senza eccedere negli assoli, ma piuttosto offrendo un substrato ideale al flautato incedere di Foster, in netto contrasto con il sofferto e lancinante proclama del sassofono. In più di dieci minuti accade di tutto, sulla scorta di una sequenza di rapidi o graduali passaggi di staffetta, alternanza di ruoli in prima linea e cambi di mood.

Nei cinque componimenti originali, sostanziosi per lunghezza e imperniati su una forma di arrangiamento a maglie rade, c’è sempre una corsia aperta agli assoli di Elvin e soci, i quali sviluppano un plot sonoro che sembra non trovare mai una soluzione di continuità, varando una sintesi tra le lezioni di economia del tempo e dello spazio di Miles Davis e la capacità di implementare un’ambientazione a tratti sospesa e spirituale, mutuata dagli insegnamenti coltraniani. Non a caso l’abbrivio del disco recide subito il legame con il modulo espressivo imperante in quei giorni e tenta di raggiungere un «altrove» non ancora segnato sulle mappe del jazz moderno. «P.P. Phoemix» scritta da Gene Perla, mette immediatamente un’ipoteca sul futuro dell’album che non sarà mai datato ed obsoleto in saecula saeculorum, grazie alle intuizioni di questo geniale bassista italo-americano, poco considerato dalle cronache jazzistiche (in Italia sconosciuto ai più). Siamo all’alba del progressive jazz. La partenza dell’album è magnetica, ipnotica, soggiogante, quasi un iperspazio virtuale in cui coabitano forme reali ed surreali, sogni e visioni. Uno scossone rullato strappa il fruitore dalla tela del ragno, il basso annuncia il tema e la prima linea inizia una perifrasi serpentina che striscia e si rialza ripetutamente. I fiati hanno tempo ed occasione per un attraente gioco delle alternanze che diffonde nell’aria cum grano salis e padronanza del sistema metrico adottato, essenze post-coltraniane e pre-ornettiane. In fondo sono solo suggestioni, nei dieci minuti di «For All The Other Times», saltata fuori dal cilindro magico di Gene Perla, si odono echi dissonanti, legati più all’immanente che al trascendente, mentre il polimorfico groove di Elvin Jones, taglia nettamente in due il componimento, complice il bassista-autore che spiana la pista alla lunga gittata dei fiati. «Slumber», a firma Liebman, chiude la prima facciata e diventa una vetrina fluorescente per la sua progressione atonale e perforante. «Genesis» è un disco anni luce superiore che si staglia come un faro su una moltitudine di prodotti coevi fatti con lo stampino: è glorioso, trascendente, imponente. Per contro, risulta essenziale nella sua completezza e nel suo rigore esecutivo, ma forse ogni definizione potrebbe essere limitante. Se ne consiglia un immediato ascolto.

Elvin Jones