Il trascendente, per quanto possa essere un ambito punto di riferimento, si scontra con l’immanenza del mercato ed il costrutto sonoro, sfrondato da ogni implicazione filosofico-religioso, diventa irruento e fisico, mentre si appoggia e si contrappone al ritmo.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Con suo album d’esordio su Blue Note, «Omega», definito dal New York Times come il miglior album del 2020, Immanuel Wilkins faceva il suo ingresso sulla scena jazz raccogliendo una messe di consensi a vari livelli, ma soprattutto entrava a gamba tesa nel dibattito politico dell’epoca – oltretutto eravamo in piena pandemia Covid – contestando talune disfunzioni della prima legislatura trumpiana. Il giovane sassofonista contralto acquisiva così una credibilità perfino sul piano dell’impegno intellettuale, oltre che musicale. Nel 2022, il secondo album «The 7th Hand» giunse sotto differenti auspici: «Entrare in una sala (di registrazione) è come varcare il portale in una stanza magica. È una cosa che mi è mancata molto durante la pandemia. Ora mi sembra che la gente abbia di nuovo fame di vivere. Così, la stanza ha acquisito nuovamente il potere».

L’elemento politico e sociale si trasforma in una ricerca interiore alimentata da un afflato religioso che sembra far riferimento ai tormenti coltraniani dell’ultimo periodo. In particolare, il costrutto ritmico-armonico appare più sostanziale, sequenziale e tangibile per quanto giocato su un’esigenza di introspezione e di progressivo legame con la trascendenza, tesa a diventare la vera musa ispiratrice e il collettore tra l’essenza della musica (potremmo dire anche anima della musica) ed il mondo degli uomini: una sorta di ad astra per aspera che, come un lavacro purificatore ed un autodafé, conduca all’elevazione spirituale. Le parole di Wilkins risultano alquanto eloquenti: «È l’idea di essere un tramite per la musica, intesa come potere superiore che influenza effettivamente ciò che suoniamo». Il titolo, «The 7th Hand», deriva da una domanda (o un dogma da sciogliere) intrisa di simbolismo biblico: se il numero sei rappresenta il limite delle possibilità umane, Wilkins si è chiesto come sarebbe stato invocare l’intervento divino e permettere al settimo elemento di «possedere» il suo quartetto. Così il disco nasce da un desiderio di essere invasati da una forza immateriale e, dunque, poter confrontare le forze del bene e del male con i propri demoni creativi. In fondo, sono solo suggestioni, poiché il trascendente, per quanto possa essere un ambito punto di riferimento, si scontra con l’immanenza del mercato ed il costrutto sonoro, sfrondato da ogni implicazione filosofico-religioso, diventa irruento e fisico, mentre si appoggia e si contrappone al ritmo. In alcuni tratti compare perfino l’ombra di Kenny Garrett, una delle dichiarate influenze di Wilkins, laddove il contraltista si esprime con un tono vaporoso e soulfulness al contempo, calibrando assoli intricati dallo sviluppo narrativo eloquente e con l’enfasi sulla melodia.

L’album si sostanzia attraverso una suite di un’ora composta da sette movimenti che si snodano con colpi magistrali e piccoli lampi di genio, tentando di portare il quartetto ad avvicinarsi, progressivamente, ad una totale libertà espositiva ed improvvisativa, un intenso by-play individuale, ma incanalato in un flusso collettivo che scorre sistematicamente verso il nucleo gravitazionale dell’idea di base. Immanuel Wilkins conferma il suo simpatetico quartetto con Micah Thomas al pianoforte, Daryl Johns al basso e Kweku Sumbry alla batteria, oltre agli opportuni e congeniali innesti della flautista Elena Pinderhughes e del Farafina Kan Percussion Ensemble. L’opener «Emanation», scoperchia l’album e mette subito in risalto le intenzioni di Wilkins e soci, attraverso un equilibrato mix di tensione e rilascio, melodia e armonia, il tutto amalgamato da un addensante ritmico che disorienta e seduce al contempo. Il sassofonista sfreccia dentro e fuori con velocità ed articolazione, disegnando traiettorie a più strati alimentati da una fervida inventiva, mentre il pianoforte di Thomas, a volte regolare altre zampillante, passa dal modale spinto all’etereo sospeso a mezz’aria, fino a giungere ad una serie di cascate di note divergenti ed espansive. Wilkins, supportato dal suo modulare line-up, distilla agevolmente sezioni e frasi abrasive implementate attraverso torrenti di suono e da un approccio narrativo stratificato, fatto di momenti più concilianti, talvolta rugginosi e crepuscolari, ma consapevoli di una ponderata moderazione.

Seguendo il fil rouge della suite si passa, senza soluzione di continuità, a «Don’t Break», che celebra le prodezze di Kweku Sumbry alla batteria, mentre le incessanti percussioni del Farafina Kan Percussion Ensemble la spingono verso la Grande Madre Africa. «Fugitive Ritual, Selah», introdotto da un’assertiva dichiarazione del basso di Daryl Johns ed infiammato da un riff ricorrente, è ballata vagamente gospel declamata su ampi spazi di atavica blackness come una come una liturgia o un sermo generalis. Kweku Sumbry sembra fungere da timoniere, vergando delicatamente con le spazzole le linee guida, sulla scorta di un groove rilassato che diventa progressivamente più incostante e sincopato. Per contro, «Shadow» e ‘Witness’ mostrano un approccio più simmetrico esplorando forme più curvilinee e meno ispide. La prima, solcata da un riff ostinato ed insistente, sfiora il minimalismo, mentre la seconda più enigmatica inizialmente, ma ma risolutiva nella una quadratura sul finale, si trasforma in una luminosa vetrina per la flautista ospite Elena Pinderhughes, la quale fa capolino anche in «Lighthouse», dove la sua cerebrale ascesi melodica diverge dalla serrata circonvoluzione di Wilkins che saltella in modo esuberante su un paesaggio surreale ed estatico seguendo un percorso ciclico, forte di una melodia a presa rapida e di un drumming intrigante.

Nell’atto conclusivo l’ensemble appone il settimo sigillo su «Lift», oltre ventisei minuti di epico jazz d’avanguardia, tra spirito e materia, mentre il convoglio insegue l’oracolo di Trane e McCoy Tyner con l’ambizione di diventare una sorta di «A Love Supreme» del terzo millennio. Wilkins si erge continuamente sulle escrescenze accordali di Thomas imbeccato da insistenti intervalli di basso e da poliritmie dal timbro vagamente attutito. Nella fase successiva, i cromatismi si addensano, s’incupiscono e l’atmosfera diventa quasi minacciosa, mentre il contralto di Wilkins scruta nelle armonie chiaroscurali del pianoforte, con taluni dettagli che fanno pensare più al dimenticato James Spaulding che non a John Coltrane. A questo punto, c’è un rapido passaggio teso e cadenzato, segnato dal basso, da un vortice pianistico e da rapide rullate di batteria che spintonano Wilkins fino al punto di rottura del registro superiore, da cui schizzano fuoco, lava e lapilli come da un vulcano in eruzione. «In conclusione – dice Wilkins – «The 7th Hand» dimostra che possiamo pensare ancora in grande, ed immaginare di nuovo al di là dei margini autoinflitti o politici, e che lo zelo per qualcosa di migliore non solo sia possibile, ma che sia davvero alla nostra portata». Wilkins, cresciuto suonando il piano per una congregazione pentecostale nell’area di Philadelphia, non ha mai dimenticato il suo imprinting religioso così da tipico «genio spirituale» in «The 7th Hand» ha condensato una sua idea metafisica del jazz realizzabile, attraverso un moto ascensionale, presumibilmente di coltraniana memoria, dove «Lift», per metafora, diventa il suo ascensore per il paradiso.

Immanuel Wilkins
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