Seduto al centro della sua orbita e attorniato da musicisti contemporanei, McCraven concepisce gran parte dell’album dialogando con i (defunti) templari del catalogo Blue Note, evocandoli come un medium e mettendoli in contatto con la realtà circostante, ossia la nuova scena jazz.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Pensando a «Deciphering The Message» di Makaya McCraven, si ha l’idea di un esploratore che, usando la macchina del tempo, riesca ad infrangere la barriera del suono e di confini spazio-temporali andando a ritroso nel tempo, al fine di raggiungere un punto ben preciso collocabile attraverso Google Maps, in un’ipotetica location jazz dalle parti di Manhattan, in un’era circoscrivibile significativamente intorno alla metà avanzata del Novecento. Seduto al centro della sua orbita e attorniato da musicisti contemporanei, McCraven concepisce gran parte dell’album dialogando con i (defunti) templari del catalogo Blue Note, evocandoli come un medium e mettendoli in contatto con la realtà circostante, ossia la nuova scena jazz. Il batterista si mostra assai abile nel confondere intenzionalmente e mescolare senza soluzione di continuità la linea di demarcazione e di confine tra campioni e nuove registrazioni, tra drum-machine e drum-kit. Un album pieno di collaborazioni virtuali tra giovani talenti e vecchie leggende che, all’orecchio esperto dei cultori del jazz, appare come qualcosa di familiare ma di alieno al contempo. Il lavoro di Makaya McCraven può essere compreso se si sposa appieno la sua filosofia, ossia il concetto di studio, inteso non soltanto come luogo di registrazione e di incontro, ma come strumento creativo.

McCraven, acclamato all’unanimità come lo «scienziato del beat», si è ritagliato uno spazio nel jazz contemporaneo, dapprima con «In The Moment» (2015) e, successivamente, con «Universal Beings» (2018), campionando le sessioni improvvisate della sua band, per poi estrarre, allungare e riorganizzare i pezzi fino ad ottenere qualcosa di completamente nuovo. Si pensi alla sua intrigante rielaborazione di «I’m New Here» di Gil-Scott Heron, in cui è riuscito a calare, in un contesto del tutto inedito, le brucianti parole del poeta-musicista. In ogni successivo progetto, Makaya ha continuato un’intensa conversazione con la musica che l’ha plasmato, con cui è cresciuto e sulla quale ha apposto sistematicamente il proprio sigillo, aderendo così ad un modus operandi che parte dal Teo Macero di «In A Silent Way» ed arriva fino a J Dilla, passando per Madlib. «Volevo focalizzarmi maggiormente sul catalogo più datato e su un’era precisa del bebop», precisò McCraven all’indomani della pubblicazione di «Deciphering The Message», che inizia con un campione della voce di William Clayton «Pee Wee» Marquette, host del Birdland dal 1949 al 1965, stabilendo così le precise coordinate del viaggio. Di fronte a progetti di tal fatta, nei confronti dei quali i puristi del jazz nutrono molte perplessità e taluni critici storcono il naso, va detto che non si tratta di un patchwork incollato e cucito su semplici sequenze ritmiche, seguendo l’arte del sampling, ma di un disco in cui si «suona», conciliando il vecchio ed il nuovo con un perfetto equilibrio elettro-dinamico. Senza usare termini eccessivamente edulcorati, quelli di Makaya McCraven sono piccoli affreschi moderni di classici del jazz, non dissimili a quei suggestivi quadri, che partendo da un’idea originale, vengono modificati e rielaborati attraverso Adobe Photoshop o particolari plug-in. Ancora per metafora, si potrebbe sostenere che siamo vicini all’arte del riciclo intelligente, anche se avere a disposizione le chiavi del caveau della Blue Note, poterci frugare e sguazzare a piacimento, significa tutt’altro che trovarsi in prossimità di una montagna di scarti domestici o industriali da smontare, frantumare, riadattare e riportare a nuova vita.

I ritmi di McCraven iniettano nuova linfa vitale, proiettando le vecchie composizioni nel nuovo millennio, soprattutto vengono collocate in un habitat hip-hop e beat-driven, dove alle registrazioni originarie si aggiunge e si sovrappone il contributo «live» dei musicisti al soldo del batterista-leader, un vero team all-star che schiera una potente linea d’attacco con Joel Ross (vibrafono), Marquis Hill (tromba), Greg Ward (sax alto), De’Sean Jones (sax tenore e flauto), Matt Gold (chitarra), Jeff Parker (chitarra) e Junius Paul (basso). Non deve essere stato, però, facilissimo conciliare i due aspetti del sistema, ossia interagire con dischi del passato da cui non è possibile isolare singole linee strumentali, come precisa il produttore Don Was: «Non esiste il multitracking nelle vecchie registrazioni della Blue Note, almeno fino all’inizio degli anni Settantanon si può prendere un assolo di Lee Morgan senza portarsi dietro tutto il resto della band». Il titolo dell’album è emblematico. In italiano suona più o meno come «Decifrare il messaggio», quasi che Makaya possedesse un suo codice o un particolare metodo di decriptaggio per arrivare al cuore del catalogo della Blue Note, sulla scorta della propria esperienza di musicista del terzo millennio, utilizzando campioni vocali dai dischi di Blakey come «A Night At Birdland, Vol. 1» o «Introduction by Art Blakey At The Jazz Corner Of The World, Vol. 1» ed assemblando un dream team virtuale composto da ex-Jazz Messengers, quali Horace Silver, Kenny Dorham, Hank Mobley e Wayne Shorter. Si potrebbe parlare di composizione non lineare o atemporale, usando – come già accennato – il concetto di studio di registrazione come strumento. Già dal primo brano, Makaya si mostra obbediente a tale filosofia, innestando i propri loop di batteria, basso e percussioni all’interno di «A Slice Of The Top» di Hank Mobley del 1966, che nel nuovo contesto è sostenuto dal cupo e liquido shuffle di McCraven, assai diverso da un groove bebop tradizionalmente scattante, ma i fiati e le parti di pianoforte sono quelli suonati da Hank Mobley, Lee Morgan e McCoy Tyner. Mentre nel componimento originale i solisti sono quattro e si prendono il loro tempo, sviluppando per molte misure una serie di idee a spirale, nel nuovo arrangiamento, Makaya li fa parlare l’uno con l’altro, condividendo essenzialmente un unico assolo. Su «Ecaroh» di Horace Silver, eseguita ab origine in piano trio, McCraven aggiunge le percussioni ed il vibrafono di Joel Ross, trasformando il costrutto di Silver in qualcosa di più contemporaneo e completo.

La genesi di «Deciphering The Message» inizia come un’attività in solitaria, durante la quale McCraven fruga nelle casse del Blue Note per costruire una base di lavoro collettivo, estraendo i campioni e riarrangiando le parti, di cui tutti i sodali si nutrono, a volte confondendosi con la composizione originale, altre stagliandosi dal mix, come la chitarra elettrica di Parker su «Sunset» di Kenny Dorham, che sale e scende alla medesima stregua di una tromba, caratterizzandosi con uno stridio filtrato da un pedale di distorsione. Per tutto l’album, i limiti spazio-temporali vengono sfumati, tanto che si ha la percezione di vedere in una stessa sala d’incisione sia i vivi che i morti. Nei riverberi di batteria, «Wail Bait» ricorda Art Blakey, ma naviga in un flusso e riflusso morfologico-latino, ma tutto ciò che rimane dell’originale di Clifford Brown sono le prime sei su otto battute dell’intro, che si ripetono un paio di volte, mentre McCraven vi adatta un inedito groove, che diventa una piattaforma di lancio per i suoi collaboratori, i quali si sbizzarriscono con un’arrembante fantasia funkified. «Coppin’ The Haven», da «One Flight Up» di Dexter Gordon, per via del languido groove originale, appare meno hip-hop e più sensuale. «Autumn In New York», una progressione onirica magnificata dai cambi di accordi, quando fu lanciata dal chitarrista Kenny Burrell nel 1958, acquisisce una marcia in più grazie alla combinazione di McCraven con il metallofono di Joel Ross e la chitarra di Jeff Parker, perfetto epigono di Burrell e Grant Green. In «C.F.D.», McCraven mette in loop perpetuo l’adamantina introduzione pianistica di Jackie Wilson, quindi vi tesse intorno un arazzo sonoro ricco di sfumature. Come indica lo stesso titolo, la versione originale di «Tranquility», a firma Bobby Hutcherson, risulta meditativa, scarna e setosa, dal canto suo McCraven la trasforma in un sogno allucinogeno, denso di vibrazioni, con cambi di ritmo intersezionati tra frasi in loop, percussioni a raffica ed una bruciante sferragliata di chitarra elettrica. Infine, ci sarebbe un ulteriore considerazione da fare: McCraven e i suoi collaboratori hanno registrato le singole parti in isolamento a causa della pandemia. Ciò significa che il batterista ha realizzato un album con i membri di un ensemble ideale sparsi non solo nel tempo, ma anche nello spazio, ridefinendo il concetto stesso di band e bilanciando l’inestimabile tradizione hard-bop della Blue Note, il suo presente ed il futuro del jazz. Al netto di ogni considerazione, tutto ciò ha già di per sé un valore inestimabile.

Makaya McCraven
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