Non c’è dubbio che Quincy abbia incarnato la figura di uno dei pochi musicisti che, ancora da vivi, sono riusciti a guadagnarsi un posto nella storia degli uomini ed, oggi, una meritata fetta di paradiso nell’empireo degli artisti.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La storia di questo eclettico e proteiforme musicista è stata raccontata nel libro «Q: The Autobiography Of Quincy Jones» e ci vorrebbero innumerevoli pagine per narrare le sue eroiche gesta nel mondo delle sette note. Quincy Jones è stato un artista multitasking: da alchimista e manipolatore genetico dei suoni, è stato un abile cesellatore di piccoli capolavori jazz-soul-disco-funk. A parte la sua ricca bacheca di trofei come jazzista, la lista sarebbe lunga, ma basta citare «Off The Wall» di Michael Jackson, l’album che contiene l’insuperata «Don’t Stop ‘Till You Get Enough», uno dei classici della «disco-funk» di tutti i tempi. Famoso come produttore prima ancora che come esecutore, Quincy Jones è stato il «genio» compreso della black music a pari merito con Ray Charles, con cui ha condiviso i difficili esordi. È stato il Re Mida dell’R&B, colui che ha prodotto alcuni dischi fra i più venduti della storia. È stato l’arrangiatore di decine e decine di importantissimi lavori di jazz, soul, rhythm & blues, pop, rap. È stato il fondatore della rivista di cultura afro-americana Vibe, nonché proprietario dell’etichetta discografica Qwest. Per oltre mezzo secolo ha rappresenta un punto di riferimento per chiunque volesse addentrarsi nei meandri della musica di derivazione afro-americana. Ma al di sopra di tutto cosa, Quincy Jones è stato il maestro indiscusso della contaminazione e del cross-over tra generi: una pratica costante, imperniata sulla ricerca e la sperimentazione, che lo ha portato ai massimi livelli di creatività e spregiudicatezza al contempo, osando laddove pochi altri avrebbero tentato. Non c’è dubbio che Quincy abbia incarnato la figura di uno dei pochi musicisti che, ancora da vivi, sono riusciti a guadagnarsi un posto nella storia degli uomini ed oggi, forse una meritata dose di paradiso nell’empireo degli artisti.
Nato a Chicago, Illinois, il 14 marzo 1933 e cresciuto a Seattle, nello stato di Washington, si avvicina giovanissimo al jazz. Il giovane Quincy trascorre i primi anni della sua infanzia a Chicago, sua città natale, tra difficoltà economiche e la malattia mentale della madre Sara. Tra le mura domestiche, scopre la musica strimpellando su un pianoforte da autodidatta, a scuola impara a suonare la tromba regalatagli dal padre, Quincy Delight Jones I. All’età di dieci anni, si trasferisce con la famiglia a Bremerton, nei dintorni di Seattle, dove diventa amico di un pianista cieco, più vecchio di tre anni, tale Ray Charles. Ancora adolescenti, Ray e Quincy formano un duo e cominciano ad esibirsi di pomeriggio al Tennis Club di Seattle, e la sera in un jazz club, conosciuto oggi come Pioneer Square. Nel 1951, appena diciottenne, vince una borsa di studio al Berklee College of Music di Boston, ma ben presto abbandona gli studi per intraprendere una tournée come trombettista con la big band di Lionel Hampton. Pur pagato con la cifra irrisoria di diciassette dollari al giorno, Quincy resterà con Hampton ben quattro anni, cercando di carpire tutti i segreti del mestiere del musicista, dell’organizzatore e del direttore d’orchestra.
Quincy Jones, pur essendo un buon trombettista in un contesto orchestrale, non possedeva il talento straripante di un Dizzy Gillespie o di un Lee Morgan e non era capace di grandi virtuosismi come Fats Navarro o Clifford Brown, ma mentre viaggiava al seguito delle big band, cominciò a mostrarsi più tagliato nel comporre e nell’arrangiare musiche e canzoni di vario tipo. Di ritorno a New York City, ricevette numerose proposte da parte di artisti a vario titolo, che gli chiedevano nuovi arrangiamenti per i loro brani: iniziò così la sua parabola ascendente. Negli anni Cinquanta e Sessanta accumulò una serie di esperienze fondamentali, acquistando un’enorme credibilità come arrangiatore al servizio d’una folta schiera di personaggi di primo piano, tra i quali Sarah Vaughan, Ray Charles, Duke Ellington, Dinah Washington e svolgendo anche il ruolo di dirigente discografico presso la A&M: fu il primo afro-americano della storia a coprire un posto di altissimo livello nella gerarchia dell’industria discografica. Abbandonato in parte il mondo del jazz, iniziò a dedicarsi alla scrittura di musiche per il cinema e la televisione. Tra gli anni Sessanta e Settanta divenne un fervente attivista politico appoggiando dapprima Martin Luther King e, dopo la morte di quest’ultimo, il reverendo Jesse Jackson.
Il 1974 fu il suo anno funesto: un aneurisma cerebrale lo portò ad un passo dalla morte. Ci vorranno due delicatissime operazioni e sei mesi di riabilitazione per tornare ad una vita normale. La carriera prese presto una nuova direzione, ma soprattutto la sua notorietà subì un’ulteriore impennata in piena epoca «disco»: sul set del film musicale «Il mago di Oz» incontrò Michael Jackson che gli chiese di produrre il suo prossimo album da solista. Il risultato (come già detto in precedenza) fu straordinario: nel 1978, Jones fu il sublime demiurgo» e l’abile intelaiatore di suoni dell’acclamato «Off The Wall» di Michael Jackson. L’album vendette otto milioni di copie e face di lui il produttore più richiesto al mondo. Non pago di operare per conto terzi, sull’onda lunga della disco-music, il 1981, consegnò alle stampe un capolavoro di «disco-funk» con accenni jazzly e richiami alla grande tradizione soul. «The Dude» contenente la ballatissima «Ain’t No Corrida», schizzò ai vertici delle charts, grazie alla collaborazione di molti artisti presenti fra i credits dell’album. I risultati raggiunti dal secondo disco prodotto per Michael Jackson, «Thriller», furono da Guinnes dei Primati. Sempre nel 1984 riuscì a portare in sala d’incisione (per l’ultima volta) il Frank Sinatra, per l’album del commiato: «L.A. Is My Lady». In qualità di artista solista, Jones tornò sulle scene nel 1989 con lo spettacolare «Back On The Block», un trattato di moderna black music, anche qui con un un cast all-star.
Il suo personale palma-res può vantare 26 Grammy Awards vinti (il primo nel lontano 1963) a fronte di ben 77 nomination (un record assoluto), un Emmy Award, sette nomination agli Oscar e un film documentario a lui dedicato, «Listen Up: The Lives Of Quincy Jones». Fondamentale fu – come accennato – il suo impegno sociale a partire dai primi anni sessanta, quando iniziò a sostenere le attività di Martin Luther King. Jones fu uno dei fondatori dell’Institute for Black American Music (IBAM) ed un organizzatore di eventi benefici, spesso al fianco di personaggi quali Bono degli U2. La sua Listen Up Foundation ha raccolto fondi per la costruzione di case per Nelson Mandela in Sudafrica ed organizzato numerosi concerti per beneficenza. Fu sua l’iniziativa legata al successo mondiale di «We Are The World».