// di Francesco Cataldo Verrina //
Mercoledì 30 ottobre, la Perugia del jazz, in qualche maniera, ha ritrovato il Teatro del Pavone situato nella centralissima Piazza della Repubblica. Il vecchio cinema-teatro, parzialmente restaurato, ha accolto Bill Frisell, decano del chitarrismo jazz multitasking ed il suo quartetto bassless: platea e palchetti quasi al completo, occupati da un pubblico trans-generazionale e variegato per tipologia e genere, ma attento e competente. Se volessimo fare anche un piccolo spaccato sociologico del fenomeno, oltre ai tanti addetti ai lavori, musicisti, chitarristi in particolare, in teatro erano presenti molte donne. A Perugia c’è voglia di jazz ed, in fondo, al netto delle grande polverone estivo a cui affluiscono i turisti e i forestieri, la gente del jazz perugino è come una famiglia allargata, piuttosto disarmonica e dissonante, dove in tanti si sfiorano ma non si toccato, si guardano ma non si vedono, si detestano ma non lo dicono: la coperta è piccola, gli spazi angusti, mentre la fame di esibirsi è tanta. Però, si conosco più o meno tutti. Fortunatamente, in città stanno lentamente venendo alla luce altre piccole realtà che spalancano la porta soprattutto ai giovani talenti, evitando che il jazz sia confinato in un area protetta solo durante pochi giorni all’anno nel mese di luglio.
Bill Frisell e i suoi pards arrivano sullo stage quasi puntuale, dopo il classico quarto d’ora accademico all’italiana o, per la serie, «aspettiamo un po’ prima di cominciare che forse arriva ancora gente». L’applauso è scrosciante e la stima nei confronti dell’ultrasettantenne virtuoso della chitarra è palese. I tanti sostenitori ne ammirano la pacatezza degli arrangiamenti ponderati e il tono twangy ricco vibrazioni. Il vecchio Bill introduce subito i sodali partendo dal batterista Johnathan Blake, quindi il sassofonista e clarinettista Greg Tardy, ed il pianista Gerald Clayton. Il concerto inizia e la musica avvolge il Teatro del Pavone come una tela magnetica che intrappola i sensi e la percezione del fruitore risucchiandolo in una spirale di emozioni a getto continuo. Tra un barano e l’altro non sembra esserci soluzione di continuità. Peccato gli applausi, graditi certamente all’ensemble, ma rilasciati sempre al momento sbagliato o con qualche urletto da stadio dai parte dei soliti galletti amburghesi presenti in sala, i quali non conoscono la differenza fra un teatro ed pub pop e birra, torta e samba di tipo mangiaballa.
Ciò che il chitarrista di Baltimora ha proposto, generosamente, in quasi due ore di live-act con tanto di applauditissimo bis finale è molto vicino al suo terzo disco di studio per la Blue Note, «Four» realizzato con lo stesso line-up presente sul palco. L’atmosfera è la stessa, ma le tracce sono più dilatate ed espanse, mentre i contenuti intersezionali sono differenti; soprattutto dal vivo si percepisce una tensione superficiale vivida e pungente. A parte il pianista, encomiabile e talentuoso, ma poco più di un rinforzo armonico, emerge in maniera preponderante la genialità esecutiva del sassofonista Greg Tardy: è lui che da senso e struttura alle volatili composizioni di Frisell, sostenuto dal kit percussivo di Blake, spesso transfugo con alcuni assoli muscolari e disinibiti. Il leader-band si muove lentamente con aria quasi ieratica, anche se in maniera subliminale, è lui che fissa le regole d’ingaggio: i cambi di passo e di mood sono sempre dettati dalla sua chitarra che amoreggia con il sax o il clarinetto di Tardy, diffondendo nel teatro un velo di serenità distesa, quasi un understatement sonoro congeniale alle sue corde, ma soprattutto all’umore degli astanti soggiogati da quella pozione magica di suoni che sembrano provenire da più parti dello scibile sonoro. Basta l’inizio del concerto a fissare la rotta di navigazione, in cui Frisell espone al mondo la sua visione di Burt Bucharach, privandolo di tutti gli orpelli superflui, spogliandolo del sentimentalismo da collezione Harmony e rivestendolo di scaglie di sofferenza reale.
Frisell non è un musicista facilmente perimetrabile: ha trascorso decenni all’incrocio tra la musica della grande provincia americana ed il jazz, con cui flirta da tempo, senza mai condurlo all’altare, attraverso un virtuosismo nostalgico privo d’irruenza. Il compositore di Baltimora ha sovente esplorato il country, si è dilettato con il surf, ha rielaborato colonne sonore di film classici ed ha perfino pubblicato un intero album di cover di John Lennon lussuosamente orchestrate. Tutto questo corredo genetico-sonoro traspare durante la performance perugina: ad esempio certi brani ricordano per sommi capi le canzoni di Hank Williams. A volte sembra di percepire delle ambientazioni sotto traccia e minimaliste alla Elvis Costello e perfino, in quel duettare continuo fra sax e chitarra, si avverte il richiamo di Van Morrison e di certe atmosfere distese fra Irlanda e America, tra folk e soul. Sicuramente, le composizioni di Bil Frisell si sporgono molto sul versante del jazz nordeuropeo. Il chitarrista di Baltimora conosce bene le dinamiche del blues ma raramente, sfiora o cede alla ruvidezza afrologica del jazz. Durante il concerto al Teatro del Pavone di Perugia è emersa una dicotomia formale nell’atto esecutivo di Frisell e compagni, in cui la parte più «cameristica» della performance risulta più ripetitiva ed alcuni virtuosismi ostentati. Il line-up sembra intercettare gli stimoli provenienti dal mondo circostante e le inquietudini del nostro tempo sulla scorta di un senso di malinconica resilienza di fronte al disagio del presente e del quotidiano vivere. Non si dimentichi che l’album «Four», come il concerto, è disseminato di requiem per amici defunti, dove le melodie sfalsate apportano al costrutto sonoro l’effetto vorticoso di una musica corale sacra e per alcuni aspetti «luttuosa». Per contro nei pezzi di matrice folk viene sfoggiato un positivo ottimismo, oppure vengono proposti sulla scorta di un mélange di swing rilassato, merito soprattutto del sassofono di Hardy e degli adamantini arpeggi di Frisell che emanano il tipico fascino della musica country del Sud. Paesaggi sonori proiettati sul grande schermo della vita, sussurrati sotto traccia: questo è Frisell. Ed il pubblico presente al Teatro del Pavone sembrerebbe averne intercettato il messaggio. Nel complesso, il chitarrista possiede una «voce» unica e geneticamente non clonabile, completamente diversa dai dettami del vernacolo jazzistico.