// di Guido Michelone //

Pur con i necessari distinguo si può paragonare l’attuale impresa dello studioso umbro-calabro a quella che il musicologo statunitense Gunther Schuller intraprese quarant’anni fa nell’analizzare, caso per caso, l’intero jazz classico, ovvero dalle origini al bebop. Ora Francesco Cataldo Verrina, partendo da un generale volume sul jazz moderno-contemporaneo a quelli sulle case discografiche (Blue Note e Impulse!) è arrivato al Free Jazz per quanto riguarda uno stile o un genere ben definito, mentre per i singoli autori, dopo alcuni giganti (da egli stesso ricordati) e un grandissimo outsider (idem come prima) tocca a un altro artista, Jackie McLean, la cui importanza epocale viene ribadita in quest’intervista inedita, appositamente concepita e realizzata per i lettori di Doppio Jazz.

D Quando hai iniziato a scrivere il libro oppure nel momento in cui stava per essere messo in vendita ti rendevi conto del rischio di affrontare, primo in Italia, una monografia su un jazzman, Jackie McLean appunto, verso il quale, dalle nostre parti, non c’è mai stata grande attenzione sotto il profilo storico-critico?

R L’ho fatto proprio per questo motivo, per colmare le lacune di una certa editoria assistita e senza rischio d’impresa, avendo già, comunque, pubblicato monografie di personaggi illustri come Davis, Mingus, Trane, Rollins, Monk, etc. Ho scritto perfino una monografia su Art Pepper, personaggio amato da molti ma non conosciuto da tutti, di cui non esiste nulla in italiano e quanto meno scritto da un autore europeo. C’avevo pensato, ma poi mi sono detto: che senso ha scrivere l’ennesimo libro, ad esempio, su Chet Baker? Art Pepper ha ripagato il mio impegno in termini di vendite e Jackie McLean sta cominciando a muoversi sul mercato con l’ausilio dei miei fedeli lettori, che via via stanno diventando tanti e che fanno da cassa di risonanza grazie al web.

D Come vien recepito invece all’estero – caso per caso – il jazz di McLean dai critici americani, francesi, britannici (giusto per nominare le tre situazioni jazzisticamente più interessanti e propositive?

R Jackie McLean è un personaggio molto amato dai critici competenti di tutto il mondo, mentre il suo pubblico è costituito in primis dai cultori del catalogo della Blue Note. In Francia è piuttosto conosciuto, nonché amatissimo nei paesi scandinavi per la militanza presso l’etichetta danese SteepleChase durante la seconda fase della sua carriera.

D Come hai affrontato l’argomento? Rispetto al tuo ‘solito’ (peraltro alquanto originale) approccio ermeneutico – lo studio del musicista attraverso l’analisi dei singoli dischi dalla musica in essi contenuta fino alle note di copertina quali parti integrati di un progetto assai più complesso che tra l’altro finora nessuno ha mai scandagliato: sarebbe ora un’antologia che raccogliesse i migliori testi di questo tipo – vi sono state conferme, deviazioni o altro?

R Tu sai benissimo che io parto sempre dalla discografia, che costituisce il centro gravitazionale delle mie narrazioni ed il modo migliore per conoscere un musicista. Non mancano le note biografiche e l’aneddotica che servono a lubrificare il plot, nonché a inquadrare il personaggio a livello ambientale, familiare e sociale. Le liner notes dei vecchi vinili sono un valido indicatore di marcia, perché contengono curiosità e dettagli legati al momento della registrazione. Molte di esse oggi restano piuttosto geo-localizzate nel tempo e nello spazio. Le riflessioni dei critici moderni vanno oltre, ma per il semplice fatto che si hanno più strumenti di confronto a disposizione, dunque ragionare ex-post è più semplice, poiché si conosce il finale di molte storie. Specie in riferimento ad artisti prematuramente scomparsi o che non hanno mantenuto le promesse accennate in quel dato disco, oggi l’atteggiamento dello studioso è diverso rispetto al redattore delle note di copertina che descriveva uomini, mezzi tecnici, eventi e situazioni in tempo reale. Nella storia delle principali etichette discografiche esistono parecchi unicum ed una serie di jazzisti che sono quasi spariti, non avendo mantenuto talune promesse o per le avversità di un mercato, all’epoca, iperaffollato e selettivo.

D Che cos’ha in più o di differente l’hard bopper Jackie che gli altri accoliti di casa Blue Note non posseggono?

R McLean ha sempre avuto un suono alquanto distintivo rispetto allo standard Blue Note, personalmente sarebbe stato gestito meglio se inserito nel roster della Impulse! Records, ad esempio. È stato uno sperimentatore innovativo, sin dai primi album, fino a giungere ad alcun forme di post-bop ipermodale, che mettevano un piede già nel free jazz. I primi ad accorgersi delle sue potenzialità furono Miles Davis e Charlie Parker. Quest’ultimo ne fece il suo allievo più «intimo» e fidato, tanto da chiedergli di prenderlo a calci (come recita il sottotitolo del libro) in caso fosse sceso a compromessi suonando in qualche bettola per pochi dollari. Bird spendeva tutto in alcool e droga ed era sempre al verde. La grandezza di Jackie McLean, che molti non hanno considerato, consiste nell’essersi affrancato completamente dal parkerismo, pur essendo stato molto vicino a Bird, sviluppando una sonorità unica e personalizzata sul sax contralto. Pochi altoisti ci sono riusciti: un altro fu proprio il succitato Art Pepper.

5 McLean è tra i pochissime (assieme a Sonny Rollins e Max Roach) a parlare di ‘libertà in un suo disco in anni difficili: da Let Freedom Ring è possibile ricavare anche un suo credo politico?

D Quando si dice l’aria che tira, certamente tutti i musicisti africano-americani non erano insensibili all’urlo di libertà della loro gente. Jackie in quegli anni aveva molti problemi per via dell’uso di stupefacenti (come quasi tutti i jazzisti) e non fece mai attivismo politico vero e proprio. Recuperò negli anni successivi occupandosi dell’integrazione dei giovani di colore diseredati, senza famiglia e con difficoltà economiche.

D Assai più di Miles, Ornette Coleman ha sempre disdegnato (a differenza di Rollins, Coltrane e altri grandi) le collaborazioni tra colleghi: unica eccezione il disco di Jackie New And Old Gospel. Come si spiega? Una mossa della casa discografica o un’urgenza espressiva o altro ancora?

R Tutte le collaborazioni nascevano da interessi discografici. Nello specifico «Jackie New And Old Gospel» è un disco quasi free form ma piuttosto atipico: Ornette suona la tromba ed un semplice gregario, figuriamoci! Forse il Freddie Hubbard di turno era andato in vacanza. In quel periodo Coleman fece alcune cose con la Blue Note proprio nella fase calante dell’etichetta di Lion.

D Nell’abbondante e costante discografia di McLean c’è un vuoto tra il 1967 e ilo 1972, ovvero gli anni in cui prende forma il jazz elettrico o jazz-rock che dir si voglia. Pur senza fare la fusion anticipata da Miles, moltissimi jazzman (Rollins, Ornette, Sun Ra, Ayler, per citare i più grandi) adottano tastiere, bassi e chitarre elettriche. Perché Jackie non lo fa e perché sta ‘zitto’ per circa un lustro?

Come accennavo prima, la latitanza fu dovuta anche ai problemi personali e all’uso delle droghe, una «malattia esistenziale» che gli aveva attaccato proprio il suo mentore Charlie Parker. Il contraltista fu salvato dal baratro e dal tracollo economico da una proposta di docenza, pur non avendo titoli di studio accademici e dall’impegno nel sociale che, ad un certo punto, lo allontanò completamente dall’attività di musicista sul campo. Fu l’etichetta discografica danese SteepleChase, di cui prima, a riportarlo in auge.

D Come per l’amico/collega Dexter Gordon, il ritorno in scena nel 1972 segna il ritorno di Jackie al jazz altresì nel contesto del punto di inizio del recupero del suonare acustico nella storia del jazz, pur tra mille difficoltà. Tuttavia il sound di McLean da allora sino alla morte appare meno innovativo e meno periglioso, insomma inteso a perpetuare quasi unicamente la ‘tradizione’ dell’hard bop in ciò che verrà poi chiamato new hard bop o modern mainstream. Davvero è così?

R Sorvoliamo sulle classificazioni e sulle definizioni, Gordon e McLean, nel 1973, erano due sopravvissuti alla grande epopea del jazz moderno ed andavano raminghi per l’Europa. Tu fai riferimento a «The Meeting». Fu una bella iniziativa discografica, un live registrato al Jazzhus Montmartre di Copenhagen, che metteva insieme due talenti accomunati dagli stessi problemi, ossia l’uso di stupefacenti e la necessità di allontanarsi dalla scena americana per lunghi periodi, proprio nel momento clou delle loro rispettive carriere. Una sorta di ricerca del tempo perduto, nulla più. In quanto al suono «classico» presente nello specifico album, per Jackie non poteva essere diversamente avendoci accanto Dexter Gordon. Avesse avuto di fianco un Coltrane, allora le cose sarebbero andate diversamente. La grandezza di Jackie McLean era anche la sua capacità di adattamento: un pregio che riguardava la maggior parte dei jazzisti maturati in casa Blue Note, dove bisognava saper fare tutto ed essere pronti a mettersi al servizio degli altri, all’uopo ed a rotazione: a volte eri leader, altre eri gregario. Teniamo conto che nei pesi scandinavi i jazzisti americani erano tenuti in grande considerazione e pagati molto bene.

D Andando in crescendo, c’è un disco (uno solo!) che ami di più degli altri di Jackie McLean? Quanti e quali consiglieresti per la ‘classica’ discoteca ideale di 300 album (che forse oggi andrebbe aggiornata almeno a 500: il metro di misura proposito dal dj inglese che l’ha ideata è di tre per Lee Morgan e di conseguenza quanti per lui)?

R la discoteca ideale è la mia ed è la fonte principale del mio lavoro di divulgatore: non bastano tre album per giudicare e conoscere un artista. Il jazz non è un trastullo per il fine settimana o un oggetto da playlist ideale. Di Jackie consiglio tutti gli album incisi con la Blue Note: sono una quindicina. Il vero McLean è quasi tutto lì, è sostanzialmente quello maturato in casa Lion. Prima ci fu una fase di crescita e di assestamento, e dopo solo un vivere di rendita, per quanto gli ultimi album siano piuttosto gradevoli, suonati con maturità e padronanza dello strumento. Il disco di Jack McLean che preferisco è «A Fickle Sonance», un Blue Note del 1962, ma per un fatto mio strettamente personale che, in una scala di valori, non lo pone né prima né dopo altri.

D Un ultima domanda, forse fuori contesto: tu sei contrario alle presentazioni dei libri in libreria o nei circoli o comunque dal vivo. C’è un motivo particolare o è il solito ragionamento che facciamo tutti noi scrittori non così famosi come Saviano o Baricco di trovarci a ‘contarcela’ in mezzo a quattro gatti?

R Intanto, non si tratta di Baricco o di Saviano, ma partiamo dal concetto che noi scriviamo libri di nicchia che hanno un pubblico già di per sé esiguo. Ho visto anche nomi noti dell’editoria jazz presentare libri alla Feltrinelli con sette persone, di cui tre erano la moglie, il figlio e un amico compiacente. Oggi la libreria è un luogo iellato, s’incontrano persone tristi. Quelle poche rimaste, e indipendenti dei gruppi editoriali, sono quasi tutte semideserte, la maggior parte delle persone compra i libri on line, perfino all’autogrill, o nei megastore librari che sono più simili ai supermercati dei giocattoli o alle grandi cartolerie. Parlo da vecchio ed assiduo frequentatore di librerie.

D E come tale – frequentatore di librerie – cosa ami di più?

Preferisco, dunque, fare le presentazioni nel corso di eventi jazzistici, quando m’invitano. Ho fatto e faccio, se capita, presentazioni in location istituzionali, nei negozi di dischi o di hi-fi, dove porto anche i vinili per ascoltare la musica del soggetto o dei soggetti trattati nei libri, in fondo sono anche un vecchio DJ; in radio ho organizzato spesso presentazioni con il pubblico presente, nonché presso alcune associazioni culturali legate alla musica. In genere c’è un piccolo investimento da fare, in questi circoli, ritrovi o negozi, segue sempre buffet che è a carico dell’autore. Non vendo libri brevi manu come fanno in molti, poiché non lo trovo dignitoso per uno autore serio, soprattutto non firmo copie perché non sono nessuno, anche se spesso me lo chiedono. Una volta una persona mi disse: «dai firmalo, che se un giorno diventi famoso il libro acquista valore». Sono passati trentacinque da quando pubblico libri e sono ancora qui. In verità, anni fa, a Roma ho firmato libri e T-shirt presso la Casa del Cinema di Villa Borghese, ma l’argomento non era il jazz.