«Alexithymia» di Vittorio Solimene non è un disco rivoluzionario, seppure a tratti spregiudicato e coraggioso, ma possiede il pregio di non cadere mai negli schematismi e nel calligrafismo scolastico, individuando una formula espressiva decisamente originale, per quanto ancora perfettibile.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Dice Vittorio Solimene: «Finalmente, queste ‘emozioni senza parole’ possono trovare il loro spazio, grazie al contributo di tante persone e alle esperienze che ho vissuto personalmente». C’è una parola chiave che è quella che da il titolo all’album. «Alexithymia» è un termine viene dal greco e significa «emozioni senza parole». Ed è proprio su questo assunto che si regge tutta la struttura dell’album. L’intenzione di Solimene, infatti, è stata quella di translitterare in musica storie «mute», raccontandole in maniera tale che potessero evocare un coacervo di emozioni pure, ricordi, sensazioni ed esperienze senza la necessità di ricorrere ad una narrazione parlata o cantata. Il jazz è soprattutto questo: stimolare immagini e sensazioni attraverso l’uso strumentale, specie come nel caso del concept di Solimene basato su un’inedita regola d’ingaggio che parte della formazione, nata con il preciso intento di far incontrare musicisti che non avessero mai suonato insieme, ossia Lorenzo Simoni sax alto, lo stesso Vittorio Solimene al pianoforte, Alessandro Bintzios, contrabbasso e Michele Santoleri batteria, affinché si mettessero in ascolto e a disposizione di un’esperienza che potremmo definire olistica e circolare..
Registrato il 16 e il 17 febbraio del 2023 al 2F Recording Studio di Civitavecchia, Roma, «Alexithymia», recentemente edito dalla Wow Records, si sostanzia attraverso nove componimenti inediti, tutti farina del sacco di Solimene che, a detta dell’autore, evolverebbero tutti partendo da un semplice titolo, da un’idea concettuale ed emotiva, lasciando fluire liberamente pathos e sensazioni. È facile intuire che l’incipit di ogni singola composizione sia praticamente un volo libero ed esplorativo, non basato su un’idea tecnico-musicale prestabilita, ma funga da aggregante e da indicatore di marcia per un costrutto implementato quasi in tempo reale. Classe 1998, di origini napoletane ma romano d’adozione, Vittorio Solimene approda al suo secondo album (dopo il debutto di «Urlo Piano» del 2019 per Auand), con una forma mentis più matura, quanto meno consapevole, da cui sono scaturite nuove certezze e convinzioni capaci di dilatarne lo spettro sonoro, ma soprattutto gli hanno consentito di spaziare tra suggestioni quasi cameristiche e composizioni estremamente liriche, sofisticate, viscerali e fortemente cinetiche, lontane sia dallo stantio eurocentrismo che dall’afrocentrismo di maniera o in scatola di montaggio. Ascoltando con attenzione il lavoro del giovane pianista si percepisce un perfetto equilibrio tra senso dell’orientamento contemporaneo e sfumature post-bop. L’opener «And The Sun Rises», cadenzato e progressivo, così come la successiva «Enrosadira», distesa e lunare, lascerebbero presagire uno sviluppo tematico più calibrato ed introspettivo, ma l’ottimo gioco di squadra con i sodali, basato su una sorta di circolarità dinamica, piuttosto intuitiva, consente a Solimene di evitare il plagio, sia pur involontario, di sonorità accademiche, abdicando spesso a formule più aggressive, taglienti e fortemente ritmiche. In taluni frangenti il flusso pianistico accenna a soluzioni free form, almeno più impervie, innescando il sax che s’invola tracciando trame sonore, sovente, posizionate su zone di confine: «Invisibile Walls» ne è la dimostrazione lampante.
Contestualmente in «When Rain Meets Music» e «Roots And Wings» affiorano momenti timbricamente delicati e con un sapore cinematico, dislocati tra minimalismo e opulenza melodica di differente provenienza che si srotola in un crescendo fitto di cromatismi e cambi di mood. Le diverse pagine del plot sonoro percorrono un linguaggio che esplora più vernacoli con estrema convinzione e con una sensibilità compositiva particolarmente ricettiva: «Unsolvable» è una sintesi perfetta del sinergico lavoro del line-up, dove la retroguardia ritmica costruisce gli argini nei quali la progressione accordale del piano e l’iperbole del sassofono disegnano un avvincente volo pindarico. «The Old Man in Estella» scende ancora in profondità con un incedere levigato e crepuscolare, in cui il tema melodico disegnato dal sax e l’ottimo interplay con il piano ne fanno una ballata di alto valore esecutivo e idiomatico. La tensione emotiva è percepibile a fior di pelle in «Stronger Than Reality» stemperata da un groove costante, marcatamente flessibile e rilassato. In chiusura, «First Time, Last Time», composizione locupletata da elementi che s’intrecciano su corte distanze, miniature ritmiche, frame ed intervalli armonici dettati da un tangibile senso della tradizione che si misura su una personale riscrittura del post-bop. «Alexithymia» di Vittorio Solimene non è un disco rivoluzionario, seppure a tratti spregiudicato e coraggioso, ma possiede il pregio di non cadere mai negli schematismi e nel calligrafismo scolastico individuando una formula espressiva decisamente originale, per quanto ancora perfettibile.