// di Bounty Miller //

Di certo, l’imprinting musicale ricevuto, avrebbe potuto condurla verso altri lidi culturalmente ed intellettualmente più eccelsi, ma sicuramente meno appaganti e lucrosi in termini «mercantili».

// di Francesco Cataldo Verrina //

Il classico connubio tra disco music, gay e donna di colore (Gloria Gaynor, in tal senso, è diventata un l’icona) fa delle cantanti nere le interpreti assolute ed incontrastate della dance music. Dopo la disco divenne cosi anche per l’house e per pubblico gay fu amore a prima vista. «La frequente collisione tra lavoro, ballo e sesso nei testi della disco rende la subordinazione al ritmo una sorta di schiavitù volontaria, e offre al pubblico gay che l’adora tre categorie di rappresentazione: femminilità, blackness e meccanizzazione» – nel saggio «In The Empire of The Beat. Disco And Discipline», Walter Hughes scrive: «La voce femminile nera, che canta sopra il corpo elettronico della disco, regala dunque all’uomo gay una forma di identificazione possibile. A questo vanno aggiunte le complicazioni della razza. La disco eseguita da donne nere richiama inevitabilmente la loro assenza dalle luci della ribalta della società nordamericana. Basta dare un’occhiata ai giornali, al cinema o ai telegiornali del periodo: la black woman, nei media, era continuamente oggetto di scherno e di commiserazione come parassita dell’assistenza statale: tossica persa o alcolizzata, ragazza-madre, prostituta. La diva di colore della disco lancia quindi una sfida pesante agli omosessuali bianchi: può un uomo, e in particolare un uomo bianco, identificarsi con una schifezza come me? La sfida e ampiamente accolta. Solo così si può capire come il passo tra l’oppressione di un gruppo socialmente minoritario e la liberazione gay sia brevissimo, istantaneo, un flash dentro le luci stroboscopiche della disco. Ma prima ancora che sociale, il meccanismo di base dell’identificazione tra maschi gay e donne di colore eterosessuali è quello del piacere e della passione».

Se Gloria Gaynor fosse venuta al mondo una quindicina d’anni prima, con tutta probabilità, avrebbe fatto ciò che fecero Aretha Franklin o Nina Simone, ma ognuno è figlio del proprio tempo e del luogo di origine: se Elvis Presley fosse vissuto negli anni Ottanta avrebbe fatto il camionista e basta; magari, se i Beatles fossero nati in Polonia avrebbero fatto i lavavetri o i sindacalisti. Gloria Gaynor, pur essendone diventata un’icona vivente, ha sempre trovato riduttivo essere considerata un’interprete di disco music. Di certo, l’imprinting musicale ricevuto, avrebbe potuto condurla verso altri lidi «culturalmente ed intellettualmente più eccelsi», ma sicuramente meno appaganti e lucrosi in termini «mercantili». Non esiste, però, altra cantante di colore, che venga associata con estrema naturalezza alla disco music come Gloria Gaynor. Il merito-demerito è da attribuirsi proprio ad «I Will Survive», una delle disco-song più amate e ballate di tutti i tempi, presente in centinaia di compilation celebrative e commemorative dei Seventies. La storia personale della Gaynor comincia da molto lontano, ma il suo destino appare segnato subito da un legame quasi indissolubile con la disco. Infatti, già nel 1973, Gloria fu ufficialmente incoronata «Queen Of Disco», un riconoscimento attribuitole per aver innescato la disco-mania, con «Never Can Say Goodbye». Altro vanto o rammarico della «Queen Gaynor» è quello di essere stata la capostipite di una gloriosa discendenza di voci femminili di colore, così importanti nel panorama dance-oriented, da renderla una sorta di icona del genere e perfino, come già specificato, del movimento gay.

Nata a Newark, New Jersey, il 7 settembre 1949, di certo la giovane Gloria Fowles, che cresceva ascoltando i classici rhythm & blues, non poteva immaginare il suo fulgido destino. Cresciuta in una numerosa famiglia (cinque fratelli e due sorelle) di musicofili. Incoraggiata dai genitori, si dedicò, insieme a tutti i fratelli (che secondo la Gaynor possedevano delle voci ancor più intonate della sua) al canto. All’età di otto anni, si appassionò al rock, e, contemporaneamente, iniziò a studiare musica: i suoi grandi maestri furono Nat King Cole, e, per lo stile, Sarah Vaughan. A diciotto anni, le capitò l’occasione di sostituire per alcuni concerti il cantante di un gruppo: tutto andò per il meglio e questa collaborazione proseguì per diversi anni. Era stato un colpo di fortuna. Una notte si era recata in un locale con un amico, che convinse la band che si esibiva a chiamare al microfono la Gaynor. Da quella notte, Gloria lavorò intensamente sei notti alla settimana, con solo due settimane di riposo all’anno. Dopo l’esperienza con i Soul Satisfiers, grazie alla geniale intuizione di Clive Davis, abile produttore afro-americano molto sensibile ai cambiamenti dell’R&B, incide «Never Can Say Goodbye». Il successo fu immediato, mentre il resto lo fece, nel 1975, la sua personale riedizione in chiave disco di «Reach Out I’ll Be There», un classico di scuola Motown, portato al successo una decina d’anni prima dai Four Tops.

Negli anni successivi Gloria Gaynor cercò di non trasformarsi in uno stereotipo disco, evitando di ricalcarne troppo gli schemi. «Non volevo essere considerata come una mera cantante di disco music, ma piuttosto come una valida interprete, con varietà di argomenti e profondità di temi» – come ebbe a dichiarare – «Ciò andò a scapito del successo commerciale che per alcuni anni mi è stato negato. Ma non importava, essere una Disco Queen è stata soprattutto un’esperienza educativa: a me ha fatto capire che l’unica differenza esistente tra la gente, riguarda la cultura. Le differenze sono solo differenze e non hanno nulla a che vedere con ciò che è meglio e ciò che è peggio. A volte le differenze sono veramente belle e costruttive». Ironia della sorte, Gloria Gaynor continua ad essere considerata la regina delle discoteche anni ’70 per antonomasia. Dopo un periodo d’incertezza, arrivò «I Will Survive» che le permise, nuovamente, di assaporare il brivido dell’alta quota nelle classifiche di tutto il mondo con una storia che ha, comunque, del paradossale: «I Will Survive» rappresentava solo il lato B. Allora c’erano i 45 giri o i maxi-single, mentre la canzone destinata al successo, almeno nelle previsioni dei discografici, avrebbe dovuto essere «Substitute», ma il destino volle il contrario: «I Will Survive» spopolò nelle discoteche (in particolare grazie all’intuizione del DJ dello Studio 54) e nell’airplay radiofonico di tutto il Pianeta e -come già detto- resta uno dei capisaldi della musica dance di tutte le epoche. Vennero poi altri album. Il più degno di nota rimane sicuramente il successivo «I Have A Right», del 1978, che oltre alla trascinante «One Number One», contiene forse la sua canzone più bella «You Took Me in Again», ma anche questa volta i discografici o chi per loro, ma forse la stessa Gaynor, non ci videro o non ci vollero vedere molto chiaro. Gloria Gaynor, a prescindere dalla sua collocazione nel settore «disco», rimane una delle più valide interpreti di R&B di tutti i tempi. Ascoltando la sua voce e le sue doti interpretative, a prescindere dai ristretti limiti geografici, dalle barriere culturali, esulando dall’inevitabile hic et nunc dell’industria dello spettacolo, questa «signora» avrebbe meritato ben altri riconoscimenti. Lo show-biz richiede divi da spremere e poi gettare nella triturante pattumiera del dimenticatoio, ma se a cinquant’anni dal suo esordio il nome di Gloria Gaynor suscita ancora ricordi, nostalgie ed emozioni e le sue canzoni trascinano in pista con la naturalezza di sempre, tutto ciò significa che a questa «regina» spetta (spetterebbe) di diritto un posto di rilievo nella «Hall Of Fame» della musica (pop) di ogni epoca.

Gloria Gaynor