La performance risulta dinamica e priva di cali di tensione. Le parti più melodiche e ricche di patos, alternate ad una rutilante valanga di note, spingono il sassofonista a sondare l’intero registro dello strumento, fissando uno standard esecutivo elevatissimo».
// di Francesco Cataldo Verrina //
«The Solo Album» nasce da una profonda esigenza dello spirito e da un desiderio che Sonny accarezzava da tempo, avendo più volte dichiarato che amava suonare da solo: tutto ciò gli aveva permesso in varie occasioni di migliorarsi e di poter ascoltare quasi nell’intimità la voce del suo strumento, ma era sempre accaduto in privato, in fase di esercitazione o in rare e limitate occasioni pubbliche. Diversamente questa lunga maratona in solitaria copre un intero album della durata di circa un’ora, con due soli titoli distribuiti sulle facciate del disco, un interminabile assolo in una corsa ad ostacoli contro la creatività e la capacità di improvvisare quasi senza pause e senza respiro, nota dopo nota, idea dopo idea in una girandola di temi, costruzioni melodiche e suggestioni senza fine.
Tutto ciò non gli fu perdonato e non perché un attempato sassofonista di cinquantacinque anni, velleitario e vanitoso, avesse infranto alcune regole , contravvenendo in primis al carattere relazionale del jazz fatto di interplay tra vari strumentisti, cambi e scambi, chiamate e risposte, passaggio di consegne, staffette e byplay, ma per il solo fatto di essere Sonny Rollins. Eppure questo non era affatto il primo disco per solo sax della storia del jazz moderno. Anthony Braxton aveva pubblicato «For Alto» nel 1971, mentre Coleman Hawkins nel 1948 aveva inciso «Picasso» in completa solitudine, solo per citare qualche caso. Al colosso piovvero addosso una serie di critiche ingiustificate: si parlo di fallimento, di disco sconclusionato, di vagabondaggio musicale, di occasionali citazioni di vecchie melodie gettate a caso nell’aria, di improvvisazione infinita senza un approdo. Mentre per gli stessi critici, Braxton stava esplorando le infinite possibilità dello strumento, mentre Hawkins aveva onorando quello spirito creativo, tipico della specie umana, che non può essere represso. La domanda sorge spontanea: perché Sonny Rollins avrebbe dovuto reprimersi o non voler esplorare le infinite possibilità del suo strumento?
Fortunatamente, dopo un scansione seria ed approfondita del disco, di cui si ravvisano tutti i limiti jazzistici di una performance in solitaria, che sia piano, chitarra, sax, tromba, violino o arpa celtica, si giunge a ben altre conclusioni. Il timore di trovarsi al cospetto di opera noiosa è assolutamente infondato. La performance risulta dinamica e priva di cali di tensione. Le parti più melodiche e ricche di patos, alternate ad una rutilante valanga di note, spingono il sassofonista a sondare l’intero registro dello strumento, fissando uno standard esecutivo elevatissimo, difficile da ragguagliare in quello scorcio di 1985. Basta considerare il fatto che la maggior parte dei tenori equipollenti erano già caduti in disgrazia, finiti nell’oblio o scomparsi, mentre le nuove leve apparivano come dei cloni in formato pecora Dolly del sax. Per contro il disco destò anche molteplici entusiasmi: dopo l’uscita di «The Solo Album», divenne consuetudine dire che Sonny Rollins avrebbe potuto emozionare il pubblico leggendo l’elenco telefonico di New York ad alta voce attraverso il suo sassofono.
Ad onore del vero, difficilmente un altro sassofonista avrebbe potuto compiere un’impresa del genere senza il supporto di altri musicisti ed un canovaccio su cui sviluppare i temi. Un’Odissea di cinquantasei minuti, non scritta o narrata ma soffiata, non è sicuramente un ascolto facile, tanto da mettere a dura prova la capacità di sopportazione e la soglia di attenzione di chicchessia. Sonny Rollins è l’uomo solo al comando che prende un’idea, la fa girare al contrario, la mette sottosopra, creando una sequenza sincopata e punteggiata da citazioni inaspettate di canzoni e motivi dimenticati da tutti, ma ben custoditi nel suo cassetto dei ricordi.
Quella del 6 luglio 1985 al Museum Of Modern Art’s Sculpture Garden di New York sarebbe diventata una delle sue più riuscite e forse insolite performance dal vivo. L’album che ne fu ricavato contiene due epiche suite di mezz’ora «Soloscope Part 1 e Parte 2», abilmente composte da Rollins quasi in tempo reale. il risultato finale, per gli intenditori di jazz è a dir poco stupefacente. Il sassofonista costruisce e demolisce continuamente, attraverso invenzioni spontanee, senza rimanere mai corto di idee e di carburante. Durante le lunghe improvvisazioni, Rollins stuzzica il pubblico citando frasi e prelevando frammenti da alcuni classici come «Camptown Races», «Mr. P.C.», «The Star-Spangled Banner» o dalla sua «Saint Thomas» prima di inabissarsi in un impetuoso mare di note, scale e fogli di suono. Non risulta che durante l’esibizione dal vivo vi siano state lamentele o fischi da parte dell’audience, oltremodo affascinato dall’inarrestabile progressione rollinsiana. A detta di alcuni presenti all’evento, la platea appariva solo lievemente stordita ed estraniata dalla surreale atmosfera, ma gratificata dall’elevato livello della performance.