La sua scrittura è caratterizzata da una padronanza assoluta dell’orchestrazione, una sensibilità ritmica ereditata dal jazz e una tensione armonica che attinge tanto alla musica colta europea quanto alle tradizioni popolari dell’America Latina.

// Francesco Cataldo Verrina //

«Non volevo scegliere tra La Sagra della Primavera di Stravinskij e Salt Peanuts di Dizzy Gillespie. Così ho cercato di fondere entrambe durante tutta la mia carriera». Questa dichiarazione riportata nell liner notes di un cofanetto della Decca, sintetizza l’opera ed il pensiero di Boris Claudio «Lalo» Schifrin, figura cardinale della musica del Novecento e del primo ventunesimo secolo, morto 26 giugno 2025 a Los Angeles, all’età di 93 anni. La sua scomparsa rappresenta non soltanto la perdita di un compositore di straordinaria versatilità, ma anche la fine di un’epoca in cui la musica per immagini ha saputo farsi arte autonoma, linguaggio universale e ponte tra culture.

Nato a Buenos Aires nel 1932, Schifrin si è formato tra l’Argentina e il Conservatorio di Parigi, dove ha assimilato la lezione della musica classica europea, senza mai rinunciare alla pulsione ritmica del jazz e alle suggestioni popolari del suo continente d’origine. Il suo percorso artistico è stato segnato da una costante tensione verso la sintesi: jazz, tango, musica sinfonica, ritmi afro-caraibici e tecniche d’avanguardia convivono nella sua opera in un equilibrio sempre dinamico, mai forzato. Il nome di Schifrin è indissolubilmente legato al tema di «Mission: Impossible» (1966), autentico totem della cultura popolare, capace di attraversare decenni e generazioni, dalla serie televisiva originale fino agli otto film con Tom Cruise. Ma ridurre la sua eredità a un solo brano sarebbe un’ingiustizia storica. Schifrin ha composto oltre cento colonne sonore per il cinema e la televisione, spaziando da «Bullitt» a «Dirty Harry», da «Cool Hand Luke» a «Enter The Dragon», fino alla trilogia comica di «Rush Hour». La sua musica ha saputo incarnare l’azione, la tensione, il mistero, ma anche l’ironia e la malinconia, con una scrittura orchestrale raffinata e una sensibilità narrativa fuori dal comune. Collaboratore prediletto di registi come Don Siegel e Clint Eastwood, Schifrin ha ricevuto nel 2018 l’Oscar onorario per il suo contributo all’arte della musica da film, consegnato proprio da Eastwood. Il riconoscimento ha suggellato una carriera che ha saputo coniugare rigore compositivo e apertura sperimentale, tradizione e innovazione. Lo stile compositivo di Lalo Schifrin si distingue per una straordinaria capacità di sintesi tra mondi sonori apparentemente inconciliabili. La sua scrittura è caratterizzata da una padronanza assoluta dell’orchestrazione, una sensibilità ritmica ereditata dal jazz e una tensione armonica che attinge tanto alla musica colta europea quanto alle tradizioni popolari dell’America Latina. Schifrin ha saputo fondere la complessità strutturale della musica sinfonica con l’immediatezza del linguaggio cinematografico. Le sue partiture sono spesso costruite su cellule ritmiche incisive, ostinati sincopati e armonie modali, che conferiscono alla musica un senso di urgenza e dinamismo.

Il musicista argentino è stato anche un prolifico autore di musica da concerto, direttore d’orchestra e pianista jazz. La sua «Latin Jazz Suite» (1999) e la sinfonia «Long Live Freedom» (2024), dedicata all’Argentina, testimoniano la sua inesauribile curiosità e il suo impegno civile. La recente pubblicazione del cofanetto «The Sound Of Lalo Schifrin» da parte della Decca – sedici CD che raccolgono jazz, pop e colonne sonore, incluse rarità e inediti – offre una panoramica esaustiva della sua produzione, dal 1955 al 2017. Nel corso della sua carriera, Schifrin ha collaborato con giganti della musica come Barbra Streisand, Ray Charles, Stan Getz, Johnny Hodges e Cal Tjader. La sua capacità di muoversi tra mondi sonori diversi, senza mai perdere coerenza stilistica, lo rende una figura unica nel panorama musicale del secolo scorso. Infatti, il jazz non fu per Lalo Schifrin un semplice stile musicale, ma una vera e propria matrice creativa, un linguaggio espressivo che permeò ogni aspetto della sua produzione. La sua formazione classica, ricevuta tra Buenos Aires e Parigi, si intrecciò fin da subito con la scoperta del bebop, in particolare grazie all’incontro decisivo con Dizzy Gillespie, che lo volle come pianista e arrangiatore nel suo quintetto. Da questa collaborazione nacquero opere fondamentali come «Gillespiana» (1960) e «The New Continent» (1962), suite sinfoniche che fondevano jazz moderno, orchestrazione classica e ritmi latini, anticipando di decenni le contaminazioni oggi comuni. Schifrin fu tra i primi a esplorare sistematicamente l’incontro tra jazz e orchestra sinfonica.

Il progetto «Jazz Meets The Symphony», avviato nel 1992 con la London Philharmonic Orchestra, rappresenta una delle più alte espressioni di questa sintesi: un dialogo tra improvvisazione e scrittura, tra swing e contrappunto, tra libertà e struttura. In queste opere, Schifrin non si limita a «giustapporre» i due mondi, ma li fonde in un linguaggio coerente, personale, riconoscibile. Il suo stile jazzistico è caratterizzato da armonie sofisticate, uso sapiente della dissonanza, fraseggi sincopati e una spiccata sensibilità timbrica. Pianista di grande eleganza, Schifrin prediligeva un tocco incisivo ma controllato, capace di sostenere tanto l’improvvisazione quanto l’accompagnamento orchestrale. Le sue composizioni jazz, come «Black Widow» (1976), mostrano una padronanza assoluta del groove e una profonda conoscenza delle tradizioni afro-americane e latino-americane. Il jazz, per Schifrin, non fu mai un genere da confinare in uno spazio stilistico, ma una filosofia musicale: apertura, dialogo, contaminazione, come dichiarò in un’intervista: «Il jazz è libertà, ma anche responsabilità: quella di ascoltare l’altro, di costruire insieme». È in questa visione che si radica la modernità della sua arte, capace di parlare a pubblici diversi, attraversando epoche e geografie Nella sua autobiografia «Mission Impossible: My Life in Music» (2008), egli scriveva: «Le possibilità del suono non sono ancora state esaurite. Il mondo della musica è un continente ancora da esplorare». Questa frase riassume con efficacia la sua poetica: una musica come spazio di libertà, di contaminazione, di scoperta. Non meno rilevante è l’influenza delle musiche latinoamericane: il tango argentino, la samba brasiliana, i ritmi afrocubani. Schifrin non li ha mai trattati come semplici esotismi, ma li ha integrati organicamente nel suo linguaggio, come dimostrano opere come «Tango» (1998). Con la sua scomparsa, il mondo perde non solo un compositore, ma un pensatore del suono, un architetto di emozioni, un ponte tra le Americhe e l’Europa, tra la tradizione e la modernità. Ma la sua musica, viva, pulsante ed inconfondibile, continuerà a parlare, a sorprendere e ad ispirare.

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