Freddie Hubbard

// di Irma Sanders e Francesco Cataldo Verrina //

Questa intervista è stata registrata, sul calare degli anni Ottanta, ad Amburgo e buona parte del merito va al mio amico Helmut Sanders, all’epoca valido fonico di studio ed organizzatore di eventi musicali, ma pessimo intervistatore. Infatti, nel nastro originale, si sente che sono io a suggerire le domande in italiano, mentre sua moglie Irma le traduce in inglese. L’idea di Helmut era stata quella di riprendere anche le domande in tedesco, quindi andare in studio e fare un editing sovrapponendo alle domande originali la traduzione in inglese. In realtà andammo a cacciarci in una situazione quasi surreale, nonostante non capitasse tutti i giorni di avere un ospite come Freddie Hubbard disponibile a farsi intervistare: il potere dei marchi (allora) o forse della radio? In verità, Helmut faceva da intermediario con un manager tedesco, favorendo gli ingaggi di Hubbard, in lungo ed in largo per quella che ancora per poco si sarebbe chiamata West-Germany. Fu una specie di catena di Sant’Antonio: io che formulavo la domanda in italiano, Irma la traduceva in Inglese rivolgendosi a Freddie, mentre Helmut blaterava in tedesco. Tecnicamente, non fu una gloriosa Epifania, tant’è vero che il DJ della radio, chiese di tagliare tutto, lasciando solo le risposte di Hubbard ed inserire la sua voce, con le domande da lui riformulate al posto di quelle di Irma che si sentiva a distanza, disturbata dalla mia e sovrastata da quella del marito. Così avvenne. Circa un mese fa, Irma ha gentilmente recuperato nella sua casa di campagna il nastro originale, l’ha sbobinato e riadattato in italiano domande e risposte – qualcosa ho ritoccato anch’io nella forma, con intento migliorativo – ma senza snaturare il senso delle domande e delle risposte, soprattutto il significato delle parole.

Francesco Cataldo Verrina: Nel corso degli anni ha mantenuto un equilibrio tra divulgazione e innovazione. Come definirebbe il suo ruolo nella storia del jazz?

Freddie Hubbard: Credo di essere stato un ponte. Ho sempre cercato di rispettare la tradizione, ma anche di portare qualcosa di nuovo. Il mio ruolo è stato quello di rendere il jazz accessibile senza semplificarlo, e di mostrare che la tecnica e l’espressività possono convivere.

Francesco Cataldo Verrina: Il suo nome è indissolubilmente legato all’evoluzione del jazz post-bop. Guardando indietro, come definirebbe il suo contributo alla tradizione musicale africano-americana?

Freddie Hubbard: Beh, penso che il mio obiettivo sia sempre stato quello di portare la tromba oltre i suoi confini tradizionali, mantenendo comunque un legame profondo con la radice africano-americana del jazz. Non ho mai voluto essere incasellato in un’etichetta rigida, come hard bop, free jazz, fusion. La mia musica rifletteva ciò che sentivo in quel momento e ciò che il contesto mi permetteva di esplorare.

Francesco Cataldo Verrina: Negli anni Settanta ha sperimentato contaminazioni con forme più popolari della musica africano-americana. Come risponde a chi ha visto questa fase come una concessione eccessiva alle logiche commerciali?

Freddie Hubbard: Capisco le critiche, ma bisogna anche comprendere il panorama musicale di quel periodo. I musicisti erano alla ricerca di nuovi modi per connettersi con un pubblico più ampio, e io non ho mai considerato la popolarità come un ostacolo alla profondità artistica. Volevo esplorare diverse dimensioni del suono senza perdere di vista la mia identità musicale.

Francesco Cataldo Verrina: Lei è stato spesso paragonato a Lee Morgan, Kenny Dorham e Woody Shaw. Tuttavia, alcuni critici hanno messo in discussione la sua intellettualità musicale, definendola impulsiva piuttosto che meditata. Come risponde a questa lettura?

Freddie Hubbard: È interessante, perché suonare la tromba al livello più alto richiede una mente estremamente acuta. È vero, ho sempre suonato con un’intensità fisica evidente, ma non era solo una questione di istinto: dietro ogni frase c’era un processo di pensiero ben preciso. Non ho mai visto il mio virtuosismo come una mera esibizione, ma come un mezzo per raccontare storie in musica.

Francesco Cataldo Verrina: Nel corso degli anni ha mantenuto un virtuosismo eccezionale, con tecniche come shake, lip trill e blue notes piegate. Qual era il suo approccio alla tromba dal punto di vista tecnico?

Freddie Hubbard: La tecnica è sempre stata centrale per me. Ho voluto portare la tromba oltre i suoi confini tradizionali, sviluppando un linguaggio che fosse espressivo ma anche potente. Non era solo una questione di abilità, ma di trovare una voce unica.

Francesco Cataldo Verrina: Negli anni Sessanta ha partecipato a una serie di registrazioni che sono oggi considerate pietre miliari del jazz moderno, come «Speak No Evil», «Contours» e «The All Seeing Eye». Guardando indietro, cosa significava per lei essere immerso in quell’ambiente creativo?

Freddie Hubbard: Era un periodo incredibile. Tutti eravamo spinti dalla voglia di innovare, di esplorare nuovi territori musicali. Wayne Shorter, Andrew Hill, Sam Rivers, ognuno di loro aveva una visione unica, e suonare con loro mi ha aiutato a trovare la mia identità artistica.

Francesco Cataldo Verrina: La sua produzione per Blue Note è spesso descritta come la quintessenza del post-bop, eppure ha sempre cercato di ampliare il suo linguaggio musicale con influenze provenienti da più parti. Cosa la spingeva verso questa ricerca di contaminazioni? Per contro, in un periodo in cui Miles Davis abbandonava le strutture boppistiche con lavori come «Bitches Brew», lei ha mantenuto una connessione con il sistema tonale del blues. Era una scelta consapevole?

Freddie Hubbard: Sì, assolutamente. Ho sempre ammirato Miles, ma il mio percorso era diverso. Io vedevo il blues come la base del mio linguaggio musicale, anche quando sperimentavo nuove sonorità. Non volevo perderlo, perché è la radice di tutto quello che suoniamo.

Francesco Cataldo Verrina: Brani come «Spacetrack» da «The Black Angel» mostrano una grande espansione linguistica. Si è mai sentito limitato dalle aspettative del pubblico e della critica?

Freddie Hubbard: A volte sì. Quando ho provavo a spingermi oltre i confini tradizionali, alcuni critici dicevano che stavo «tradendo» il jazz, mentre altri pensavano che non fossi abbastanza innovativo. Io ho sempre cercato di suonare quello che sentivo, senza preoccuparmi troppo delle etichette.

Francesco Cataldo Verrina: La sua produzione per Blue Note e CTI ha contribuito a definire un’estetica distintiva. Qual era la sua visione rispetto al concetto di jazz come espressione della cultura americana tout-court?

Freddie Hubbard: Ho sempre creduto che il jazz fosse più di un genere musicale: è un linguaggio che racconta la storia della gente di colore, degli ultimi, degli emarginati. Non m’interessava solo essere un buon solista, volevo che la mia musica riflettesse la complessità della tradizione. Il jazz è un dibattito tra passato e futuro, e io ho cercato di essere parte di quel dialogo.

Francesco Cataldo Verrina: Nel 1971 ha partecipato a «Sing Me A Song Of Songmy», un’opera sperimentale di İlhan Mimaroğlu che fonde jazz, musica impegnata e testi politici. Come mai accettò un progetto così radicale?

Freddie Hubbard: Mimaroğlu era un visionario, e il suo modo di concepire la musica mi affascinò. Non era solo una questione di suonare la tromba, ma di inserirsi in un contesto che mescolava suoni elettronici, poesia e orchestrazioni. All’epoca considerai questo progetto come un’opportunità per esplorare nuovi territori e per dare voce a una denuncia sociale attraverso la musica.

Francesco Cataldo Verrina: Lei ha dichiarato: «Stavo cercando di impedire ai ragazzi di colore di andare in Vietnam a combattere, perché la maggior parte di loro sarebbe morta laggiù». Quanto sentiva il peso della responsabilità sociale nel suo ruolo di musicista?

Freddie Hubbard: Era una questione molto sentita. Troppi giovani africano-americani venivano mandati a combattere in Vietnam, spesso senza alternative. Io volevo che la mia musica fosse un mezzo per far riflettere sulla brutalità della guerra e sulle sue implicazioni per la mia comunità.

Francesco Cataldo Verrina: Marvin Gaye, con «What’s Going On», ha rivoluzionato l’estetica della black american music inserendo temi sociali e politici. Anche lei credeva che il jazz potesse avere una funzione simile nella coscienza collettiva dell’epoca?

Freddie Hubbard: Certamente! Il jazz è sempre stato uno strumento di espressione e di protesta. Marvin Gaye fece qualcosa di straordinario con «What’s Going On», perché prese un linguaggio musicale popolare, dandogli una profondità politica. Io cercai di fare qualcosa di simile, anche se il jazz era meno accessibile a un pubblico mainstream rispetto al soul.

Francesco Cataldo Verrina: Negli anni Settanta ha aderito al Jazz and People’s Movement, un collettivo che protestava contro la scarsa presenza di musicisti jazz nei media americani. Come ricorda quel periodo?

Freddie Hubbard: Erano tempi difficili e i musicisti di colore venivano sistematicamente esclusi dalle grandi piattaforme mediatiche. Con Rahsaan Roland Kirk e altri, decidemmo di farci sentire, anche interrompendo trasmissioni televisive per attirare l’attenzione. Non era solo una protesta, era una richiesta di rispetto. Mi sembravano azioni necessarie. Il jazz era una delle più grandi espressioni culturali americane, ma la televisione e i grandi media lo ignoravano. Volevamo scuotere il sistema e far capire che i musicisti jazz meritavano più spazio. Alcuni di noi riuscirono ad apparire in programmi importanti, e questo fu una vittoria per tutti.

Francesco Cataldo Verrina: La sua produzione per Atlantic mostra un’evoluzione verso sonorità funky e latino-americane. Qual era la sua intenzione nel reinterpretare il canone afroamericano attraverso queste influenze?

Freddie Hubbard: Volevo sperimentare. Il funk e la musica latina facevano parte della tradizione africano-americana tanto quanto il jazz, e per me era naturale integrare questi elementi. Ho cercato di creare un suono che fosse contemporaneo senza perdere il legame con le mie radici.

Francesco Cataldo Verrina: «Red Clay», uscito per la CTI nel 1970, è considerato da molti osservatori il suo capolavoro, un disco che sintetizza accessibilità e complessità. Cosa rappresenta per lei questo album?

Freddie Hubbard: È il mio manifesto musicale. Ho sempre cercato di bilanciare tecnica e sentimento, e «Red Clay» incarna perfettamente questo equilibrio. Non c’è solo un groove memorabile, ma è un’opera in cui ho potuto esprimere tutta la mia identità musicale, grazie anche agli amici che hanno suonato con me: Joe Henderson (sassofono), Herbie Hancock (pianoforte elettrico), Ron Carter (basso) e Lenny White (batteria).

Francesco Cataldo Verrina: «Red Clay» viene spesso paragonato a «The Sidewinder» di Lee Morgan, un disco che divenne la sua firma musicale. Crede che «Red Clay» rappresenti la sintesi perfetta del suo percorso fino a quel momento?

Freddie Hubbard: Sì, in un certo senso «Red Clay» fu il punto di arrivo di tutto ciò che avevo sperimentato nei miei anni alla Blue Note. È un lavoro che unisce eleganza formale ed esecutiva, facile fruizione, ricerca e sperimentazione compositiva e complessità armonica ed improvvisativa al contempo, senza compromettere la mia voce strumentale. Sì, «Red Clay», nel tempo è diventato la mia carta d’identità musicale.

Francesco Cataldo Verrina: Le incisioni successive per la CTI, come «Straight Life» e «First Light», mostrano una sonorità più sofisticata e sontuosa. Era una scelta stilistica consapevole?

Freddie Hubbard: Sì, assolutamente. Con la CTI ho avuto l’opportunità di esplorare arrangiamenti più ricchi, grazie a collaboratori straordinari come Don Sebesky e Bob James. Era un periodo in cui la mia visione musicale si ampliava, diventando più lirica e orchestrale.

Francesco Cataldo Verrina: Alcuni critici ritenevano che la sua produzione per la Columbia fosse un passo indietro rispetto alle sue opere più ambiziose. Come risponde a questa lettura?

Freddie Hubbard: Non vedo la mia evoluzione musicale come una regressione. Ogni disco rifletteva quello che volevo esplorare in quel momento. È vero che alcuni lavori erano più commerciali, ma anche lì cercai di mantenere la mia autenticità.

Francesco Cataldo Verrina: Nei primi anni della sua carriera, lei ha condiviso esperienze musicali con figure come Eric Dolphy e i fratelli Montgomery. In che modo queste collaborazioni hanno influenzato la sua evoluzione artistica?

Freddie Hubbard: Sono stati momenti fondamentali per me. Dolphy, in particolare, aveva una visione musicale estremamente aperta e mi aiutò a pensare alla tromba in modi che non avevo mai considerato prima. Con i Montgomery, invece, ho trovato un senso di groove e di interplay che mi ha reso più consapevole dell’importanza del fraseggio e dell’interazione.

Francesco Cataldo Verrina: la sua carriera è strettamente intrecciata, dunque, con l’evoluzione del jazz e delle sue avanguardie. Ha lavorato con artisti come Coltrane, lo stesso Dolphy, Hancock e Shorter, contribuendo a opere che hanno ridefinito il linguaggio musicale. Come si è sviluppata la sua capacità di adattarsi a contesti così diversi?

Freddie Hubbard: Ho sempre cercato di essere versatile. Il jazz è un linguaggio fluido e ogni nuovo contesto mi permetteva di affinare il mio approccio alla tromba. Dolphy mi ha aperto la mente sul ruolo melodico e timbrico dello strumento, mentre con Coltrane ho capito quanto la struttura armonica potesse essere spinta oltre i limiti convenzionali.

Francesco Cataldo Verrina: La sua partecipazione a «Out to Lunch!» di Eric Dolphy è considerata un momento chiave nella storia del post-bop che guardava verso il free. Cosa ricorda di quelle sessioni?

Freddie Hubbard: Fu un’esperienza intensa. Eric aveva una visione musicale incredibilmente audace, e il suo modo di concepire l’improvvisazione mi costrinse a espandere il mio modo di suonare. In «Gazzelloni» e «Straight Up and Down», volevo portare un senso di urgenza e rischio nel fraseggio.

Francesco Cataldo Verrina: Lei ha sempre mantenuto un forte legame con il canone africano-americano, ma al tempo stesso ha ricercato una comunicazione diretta con il pubblico. Come ha bilanciato l’innovazione con l’accessibilità?

Freddie Hubbard: Credo che la musica debba trasmettere emozioni. Se non comunica qualcosa, non ha senso. Il blues è sempre stato il mio fondamento, ma ho cercato di costruire sopra di esso una estetica che fosse comprensibile senza banalizzarsi.

Francesco Cataldo Verrina: Come accennavamo, negli anni Sessanta e Settanta ha realizzato incisioni più direttamente legate a generi più popolari come il soul ed il funk. Alcuni critici hanno visto questa svolta come un segnale di compromesso commerciale. Come risponde a questa lettura?

Freddie Hubbard: Penso che sia una visione troppo rigida. La musica afroamericana ha sempre avuto molteplici sfaccettature, e il mio intento non era quello di «vendere» il jazz, ma di esplorarlo in tutte le sue declinazioni. Ho sempre sentito che il jazz dovesse essere accessibile, ma questo non significa renderlo superficiale.

Francesco Cataldo Verrina: Negli ultimi anni della sua carriera, la sua tecnica è rimasta potente ma la sua espressività ha assunto un carattere più maturo e consapevole. Come si vede artisticamente in questo periodo?

Freddie Hubbard: Invecchiando, ho cercato di mettere ancora più profondità emotiva nella mia musica. Non si trattava più solo di dimostrare il mio virtuosismo, ma di raccontare storie con ogni nota.

Francesco Cataldo Verrina: Ha lavorato con artisti di ogni generazione, da Oscar Peterson a Billy Joel, passando per Kenny Burrell, McCoy Tyner e Herbie Hancock. Cosa ha significato per lei questa varietà di collaborazioni?

Freddie Hubbard: Il jazz è una forma d’arte in continua evoluzione, e io ho sempre voluto essere parte di quel cambiamento. Ogni musicista con cui ho suonato mi ha insegnato qualcosa, e credo che questa apertura abbia arricchito la mia musica.

Francesco Cataldo Verrina: Le sue registrazioni con il V.S.O.P. Quintet, accanto a Hancock, Shorter, Carter e Williams, sono viste come una celebrazione della tradizione hard bop. Credeva che quel progetto fosse un modo per riaffermare il valore della musica che aveva contribuito a plasmare?

Freddie Hubbard: Certamente. Il V.S.O.P. era la dimostrazione che il hard bop aveva ancora rilevanza e potenza, anche se la scena musicale stava cambiando. Era un ritorno alle radici, ma senza nostalgia, piuttosto con la volontà di portare quella tradizione nel presente.

Francesco Cataldo Verrina: In conclusione, nel corso della sua carriera ha attraversato fasi di grande sperimentazione e momenti più legati alla tradizione. Cosa pensa della sua eredità nel jazz?

Freddie Hubbard: Ho sempre cercato di essere autentico. Se la mia musica ha influenzato, ed influenza, altri, o ispirato nuove generazioni di trombettisti, allora sento di aver fatto qualcosa di significativo.

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