…il jazz non è un museo. È un organismo vivo, che respira, cambia e si nutre di chi lo suona e di chi lo ascolta.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Sono passati più di trent’anni da quando insieme alla mia amica Irma Sanders, registrammo questa intervista a Joe Henderson, per il Circuito Radio 84. Non è stato facile recuperala dal nastro a bobine alterato dal tempo, e con qualche passaggio smagnetizzato, che abbiamo dovuto ricostruire o tralasciare. In verità, abbiamo fatto appena in tempo perché molte parti di quel nastro, chiuso in una scatola per anni, a contatto con l’aria, aveva iniziato a sbriciolarsi. Anche in questa occasione, come allora, Irma è stata una splendida compagna di lavoro ed una perfetta traduttrice. Mi preme ringraziarla soprattutto per lo calibrato e realistico adattamento (alla scrittura) che, insieme, siamo riusciti a fare, senza snaturare mai il senso delle parole e dei concetti. Entrambi siamo grati ad Alberto Alberti per aver agevolato il contatted a Guido Quarantotto, all’epoca amministratore delegato del Circuito Radio 84.

Francesco Cataldo Verrina: Dalla tua formazione a Lima, Ohio, al debutto sorprendente sulla scena newyorkese degli anni ’60… Quando hai capito che il sassofono sarebbe stato il tuo destino?

Henderson: Non è stata una folgorazione, ma qualcosa che si è rivelato nel tempo. Crescendo, sentivo che il sassofono non era solo uno strumento, ma una voce che mi lasciava esprimere liberamente, più eloquente di quanto potessi essere a parole. Suonare è ciò che sono ed ero destinato a fare.

Francesco Cataldo Verrina: Il tuo approccio sembra muoversi sempre tra rispetto per la tradizione e rinnovamento. È questa la tua visione dell’improvvisazione?

Henderson: Esatto. Non improvvisi solo per sorprendere: lo fai perché hai assimilato una storia e vuoi aggiungerci qualcosa che non era ancora stato detto. Suono ogni brano come se volessi arrivare a una frase che nemmeno i miei maestri avrebbero pensato.

Francesco Cataldo Verrina: Per comprendere meglio, ad esempio, in «Ask Me Now» di Monk, che hai reinterpretato in diverse versioni, c’è sempre una vena personale. Come vivi il rapporto con la melodia?

Henderson: Per me, ogni melodia è una storia da raccontare. Con Monk, c’è sempre qualcosa di imprevedibile, anche quando lo suoni cento volte. Mi piace pensare che ogni esecuzione aggiunga un capitolo al racconto originale.

Francesco Cataldo Verrina: Guardando alla tua carriera, molti ti considerano un punto di connessione tra tradizione e innovazione. Ti ritrovi in questa definizione?

Henderson: Sì, credo che il mio ruolo sia stato anche quello di traghettare certi valori del jazz classico dentro un linguaggio più personale e contemporaneo. Non si tratta di rompere con il passato, ma di prenderne l’essenza e farla evolvere.

Francesco Cataldo Verrina: Spesso si parla della musica in termini poetici. Tu credi che esista una «poetica del jazz»?

Henderson: Assolutamente. La poesia non è fatta solo di parole, ma di visioni, colori, dinamiche. Il jazz, per me, è linguaggio narrativo. Ogni frase musicale può essere un verso. Non compongo per stupire, ma per scavare dentro, ed è proprio lì che cerco di arrivare: alla meraviglia che nasce dall’emozione. Non suono mai qualcosa solo per virtuosismo. Cerco sempre un significato più ampio. È come scomporre e ricomporre la storia della musica: prendi i frammenti e li trasformi in qualcosa di vivo, che parla con il linguaggio di oggi.

Francesco Cataldo Verrina: Il tuo sax ha una voce molto riconoscibile, eppure qualche critico ti ha definito «sfuggente ed ambiguo». Ti riconosci in questa definizione?

Henderson: Penso che sia una parte naturale della mia identità musicale. Non voglio aderire a uno stile fisso. Coltrane aveva i suoi «sheets of sound», Ayler urlava dentro le chiese con il suo sax, Ornette inventò la sua armolodia. Io volevo qualcosa di mio, ma senza chiudermi in una formula. Suono per trovare la mia strada, ogni volta.

Francesco Cataldo Verrina: parliamo degli anni , alla Blue Note, dal 1963 al 1967: un’epoca intensa. Com’è stato registrare venti dischi in quattro anni, molti dei quali pietre miliari dell’hard bop?

Henderson: Quella fase è stata incredibilmente feconda. Sembrava che ogni settimana fossimo in studio da Rudy Van Gelder, circondati da geni come Kenny Dorham, Andrew Hill, Lee Morgan, Bobby Hutcherson… C’era un’urgenza creativa difficile da spiegare: la musica nasceva con spontaneità, ma anche con una precisione disarmante. Alfred Lion ci dava libertà, e in cambio chiedeva solo autenticità.

Francesco Cataldo Verrina: Eppure, in quegli anni, uscivano pochissimi dischi a tuo nome come leader. Ti pesava questo?

Henderson: Non ci pensavo troppo allora, ero immerso nella musica. Ma col senno di poi sì, forse l’industria era più pronta a valorizzare le «voci forti» e meno quelle riflessive. Il mio approccio era più obliquo, più analitico. Per questo molte delle mie cose da leader vennero pubblicate solo successivamente.

Francesco Cataldo Verrina: «In ’n Out», «Mode For Joe», «Inner Urge»: sono oggi considerati capolavori. Quanto c’era di progettato e quanto di spontaneo in quei lavori?

Henderson: Una volta entrati in studio, tutto doveva vivere nel momento. Avevi uno schema, certo, ma poi lasciavi che il brano prendesse la sua direzione. «Inner Urge», ad esempio, venne fuori da un periodo particolarmente duro della mia vita, ed è per questo che ha quella tensione emotiva così nuda. Era la mia voce che si faceva strada.

Francesco Cataldo Verrina: Tu eri molto presente anche come sideman, vero?

Henderson: Sì, e ne sono fiero. Quei dischi in cui «non ero il protagonista» sono stati forse i più formativi. Suonare accanto a Horace Silver, Grant Green, o McCoy Tyner ti insegna ad ascoltare profondamente. E paradossalmente, è lì che ho trovato la mia voce.

Francesco Cataldo Verrina: Ti sei mai sentito sottovalutato?

Henderson: Non direi. Forse «incompreso». Ma chi fa una musica non immediatamente accessibile deve accettare che il riconoscimento arrivi con ritardo. L’importante è che arrivi. E, alla fine, è arrivato.

Francesco Cataldo Verrina: «The Elements», inciso con Alice Coltrane nel 1973, è uno dei tuoi album più sperimentali. Come nacque quell’incontro?

Henderson: Alice era un’anima libera. Dopo la morte di John, aveva cominciato a esplorare territori spirituali, quasi cosmici. Mi ha guidato su un terreno dove i legami musicali si scioglievano: niente interplay classico, ma piuttosto una sorta di byplay, dove ognuno portava un messaggio sonoro. «The Elements» è un rituale, non un semplice disco.

Francesco Cataldo Verrina: Dopo un periodo di appannamento, la tua carriera ha avuto una svolta inaspettata grazie ad una piccola etichetta italiana, la Red Records. Cosa ricordi di quell’esperienza?

Henderson: Ah, la Red… quello fu un momento speciale. C’era qualcosa di vero in quell’approccio europeo: meno pressioni commerciali, più attenzione alla sostanza. Sergio Veschi mi chiamò in un periodo in cui in America ero quasi invisibile. Nessuno, tranne i veri appassionati, sembrava ancora interessato a quel tipo di jazz. Ma lui credeva nella mia voce, e me lo fece sentire.

Francesco Cataldo Verrina: Fu un ritorno alle radici o un nuovo inizio?

Henderson: Entrambi. La libertà che mi diedero lì mi permise di rigenerarmi. Mi sentivo ascoltato, finalmente. E la cosa buffa è che da lì si innescò una catena di eventi che portarono al contratto con la Verve. Senza la Red Records, «Lush Life» non sarebbe mai stato

Francesco Cataldo Verrina: Ti ha sorpreso che quel rilancio sia partito proprio dall’Italia?

Henderson: Per nulla. L’Italia ha un’anima musicale fortissima. Ho sempre trovato un pubblico curioso, appassionato, disposto a lasciarsi attraversare dal suono senza volerlo spiegare subito. È quello che serve, nel jazz.

Francesco Cataldo Verrina: Sei anche tu fra quelli che considerano la Red Records come la Blue Note italiana. È convinzione diffusa. Secondo te perché?

Henderson: Perché molti jazzisti americano vi hanno ritrovato quanto avevano vissuto negli anni d’oro alla la Blue Note, alla Verve, alla Prestige, alla Impulse!: libertà creativa, rispetto per la musica, attenzione ai dettagli. Sergio Veschi e la sua squadra non cercavano il colpo commerciale, ma la verità del suono. Mi hanno lasciato spazio per essere me stesso, senza compromessi. E questo, per un musicista, è tutto.

Francesco Cataldo Verrina: In effetti, sembra quasi un ritorno alle origini, ma con una nuova consapevolezza.

Henderson: Esatto. In quel disco ho voluto riprendere alcuni brani che avevano segnato il mio percorso, come «Blue Bossa» o «Inner Urge», ma con un altro respiro. Era come guardare indietro senza nostalgia, ma con gratitudine. E farlo in Italia, con quella squadra, ha reso tutto ancora più speciale.

Francesco Cataldo Verrina: Hai spesso parlato con affetto del pubblico italiano. Cosa ti ha colpito di più?

Henderson: L’ascolto. In Italia ho trovato persone, come Alberto Alberti, che non si limitavano a sentire, ma che davvero ascoltavano. Non avevano fretta di etichettare la musica, si lasciavano attraversare dal suono. È raro. E poi c’era una curiosità sincera, quasi affettuosa. Dopo i concerti, la gente non veniva a chiedermi «che scala hai usato lì?», ma mi diceva «quella nota mi ha fatto venire in mente mio padre» o «mi ha fatto piangere». Questo è il jazz che voglio suonare.

Francesco Cataldo Verrina: Ti sei sentito più compreso in Italia che in USA?

Henderson: In certi momenti, sì. Negli Stati Uniti, soprattutto negli anni ’70, il jazz era diventato una nicchia. In Italia, invece, ho sentito che c’era ancora spazio per la meraviglia. E questo mi ha dato forza. È anche per questo che ho un ricordo indelebile della Red Records, perché lì ho ritrovato non solo un’etichetta, ma persone che credevano ancora nella bellezza del rischio.

Francesco Cataldo Verrina: Dopo la Red, arriva la Verve e la trilogia: «Lush Life», «So Near So Far», «Double Rainbow», ultimo nato. Un ritorno alla ribalta?

Henderson: Sì, ma non un ritorno nostalgico. Ho voluto omaggiare Strayhorn, Miles, Jobim. Ma senza inchinarmi: li ho riletti alla mia maniera. «Lush Life», in particolare, è il punto di congiunzione tra eleganza e verità. È un disco denso, ma intimo.

Francesco Cataldo Verrina: A proposito, ti senti oggi finalmente riconosciuto dal grande pubblico, dopo anni di relativa ombra?

Henderson: Ho sempre suonato per chi ascolta davvero, anche se eravamo in pochi. Ma è vero: con l’interesse della Verve e con i Grammy qualcosa è cambiato.

Francesco Cataldo Verrina: «Lush Life» è quasi un atto d’amore verso Billy Strayhorn. Cosa ti ha spinto a dedicare un album intero alla sua musica?

Henderson: Strayhorn è stato un poeta del suono, ma troppo spesso è rimasto nell’ombra. Volevo restituirgli luce. Con i giovani musicisti che mi hanno accompagnato in studio, abbiamo cercato di onorarlo non con un’imitazione, ma con un ponte tra generazioni. «Lush Life» è un atto d’amore. E farlo con musicisti come Christian McBride o Stephen Scott è stato un ponte tra epoche. C’era profonda gratitudine in quello studio.

Francesco Cataldo Verrina: «Lush Life» sembra anche una dichiarazione d’intenti verso un’idea di jazz che valorizza l’ascolto profondo e la riflessione. È così?

Henderson: Esattamente. Non ho mai pensato al jazz come a una vetrina di virtuosismo fine a sé stesso. Ogni nota deve avere un peso emotivo. In «Lush Life» ho voluto restituire intensità, anche nei silenzi. Perché è lì, tra una frase e l’altra, che si nasconde spesso il senso più profondo della musica.

Francesco Cataldo Verrina: Cosa vorresti che il pubblico portasse con sé dopo aver ascoltato un tuo disco come «Lush Life»?

Henderson: Che il jazz non è un museo. È un organismo vivo, che respira, cambia e si nutre di chi lo suona e di chi lo ascolta.

Francesco Cataldo Verrina: E il futuro del jazz? Come lo immagini?

Henderson: Il jazz va dove vanno le persone. Finché ci sarà qualcuno disposto ad ascoltare in profondità, a mettersi in gioco davvero, allora il jazz continuerà a crescere. È una forma viva, che si reinventa ad ogni incontro.

Francesco Cataldo Verrina: Un’ultima domanda, prima di lasciarci, che cosa auguri a chi si avvicina al jazz ora?

Henderson: Di non avere paura del silenzio. Di ascoltare. Di lasciarsi attraversare dalla musica senza cercare subito di capirla. E, come ho sempre fatto anch’io, di trovare in ogni nota un piccolo mistero da portare con sé.

«Joe Henderson: la poetica del sax». Intervista originale a cura di Francesco Verrina e Irma Sanders, realizzata per il Circuito Radio 84 – Perugia / Milano, 1996

Joe Henderson & Alberto Alberti

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