L’itinerario musicale intrapreso dal quartetto somiglia più ad un pellegrinaggio dell’anima, dove ogni composizione diventa il capitolo di un racconto globale, trasformato attraverso la libertà espressiva di ogni singolo attante coinvolto.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«The Billia Session» il nuovo lavoro del quartetto Gulliver con Roberto Ottaviano è un’inconfutabile prova della perpetua inculturazione musicale, in cui s’intersecano tradizioni, avanguardia e libertà interpretativa, muovendosi in un’encalve para-jazzistica, impregnata di elementi folklorici, dove la storia vibra attraverso i millenni, i luoghi e i popoli come un’incursione nella memoria collettiva, un mormorio dell’antichità che diventa respiro del presente. Registrato dal vivo, in una location emblematica come il Grand Hotel Billia di Saint Vincent, l’album rappresenta un punto d’incontro tra radici e sperimentazione, con un repertorio che taglia trasversalmente secoli di sedimenti culturali, rileggendo materiali antichi e moderni con una sensibilità alquanto accentuata.

La capacità del line-up di fondere elementi popolari con quelli più sperimentali, senza mai spezzare il filo conduttore dell’arte improvvisativa, è un pregio alquanto raro. Ottaviano, con il suo sax soprano, aggiunge una dimensione comunicativa densa di dialoghi e sfumature, mentre Barbiero (batteria, percussioni e marimba), Brunod (chitarre) e Gallo (contrabbasso, balalaika e flauto) costruiscono un tessuto ritmico-armonico che non si limita a sostenere, ma ridefinisce continuamente gli equilibri sonori. La concezione di «The Billia Session» come un flusso unico, senza barriere stilistiche, fa di questo album un reportage di attualità, legato ad un jazz che si nutre di molteplici influenze e si schiude a nuovi orizzonti. Il riferimento ai Viaggi di Gulliver di Swift introduce una chiave interpretativa di estrema rilevanza, suggerendo una riflessione sulla percezione della realtà e sulle difficoltà di comunicazione tra gli uomini. La struttura dell’album, con brani dedicati alla Palestina, ne amplifica il concetto, trasformando la musica in una forma di dialogo universale che supera barriere, confini, diversità e distanze. «The Billia Session» si addensa come un murales impregnato di libertà musicale e sociale, una dichiarazione d’intenti che si traduce in suoni vibranti, capaci di suscitare riflessioni e stimolare visioni. «The Billia Session» è disco che merita un’approfondita indagine e che s’impone come un capitolo significativo nella produzione dei quattro protagonisti coinvolti nel progetto.

L’opener , «Sèikilos», basato sull’omonimo Epitaffio, un’antica melodia greca incisa su una stele funeraria. La rilettura del quartetto ne enfatizza la natura contemplativa: Ottaviano scolpisce linee melodiche sospese nel tempo, sussurrando un messaggio perduto nel vento, mentre Barbiero tesse trame percussive delicate, quasi rituali. Dal canto suo, la chitarra di Brunod risponde con accordi che dilatano lo spazio tangibile. L’impressione generale è quella di un’evocazione poetica, un ponte sonoro tra passato e presente. «En Voi Sua Unhoitaa Poies», originario della tradizione finlandese, si sviluppa su un’architettura sonora eterea. Brunod guida il convoglio a colpi di chitarra, oscillando tra momenti di trasparente lirismo ed incursioni armoniche più audaci. Il contrabbasso di Gallo introduce un senso di profondità malinconica, amplificandone la tensione emotiva, con una gravità lieve, quasi un lamento, mentre delicate pennellate di malinconia parlano di distanza e ricordi, trasmettendo quella sfumata sensazione di nostalgia che fluttua tra le note. «Nanita Nana» è un canto popolare spagnolo che accarezza l’ombra della sera e che il quartetto trasforma in una sorta di ninna nanna jazz dalle punteggiature meditative. Il fraseggio di Ottaviano è vellutato e carico di un afflato narrativo dall’aura medievale, mentre la sezione ritmica rimane quasi sospesa, suggerendo un andamento ondeggiante, con Barbiero che traccia una pulsazione quasi impercettibile. Il risultato è un’immersione delicata e avvolgente fatta di musica che si adagia sul silenzio, che osserva e che ammanta.

In «Lilliput / Palestine Song» la fusione tra il riferimento letterario ed il tema politico si esprime in una costruzione sonora frammentaria e pulsante, ma soprattutto un incontro tra mondi lontani e visioni contrastanti. L’intreccio tra percussioni e corde rende l’ambiente sonoro inquieto, volutamente instabile, quasi un cammino a passi incerti. Il basso costruisce una tensione emotiva che culmina nella perifrasi del flauto che tenta una mediazione dialogante tra i vari attori sulla scena. La tensione cresce e si risolve in una melodia struggente che alterna dolcezza e inquietudine: una riflessione sonora sulla fragilità e sulla complessità della comunicazione umana. «M?s?rl?» è un componimento turco che emerge attraverso un gioco di contrasti timbrici. La balalaika di Gallo e le percussioni di Barbiero ne esplorano gli anfratti in modo quasi danzante sul ventre del ritmo, mentre Brunod interviene con accenti raffinati e sottili alterazioni armoniche. L’espressività qui si concentra sulla vitalità del gesto musicale, producendo un senso di libertà che sembra non avere confini ed un invito ad abbandonarsi al flusso sonoro. Rispetto al precedente «Lilliput», «Brobdingnag / Palestine Song» amplifica il senso di magnificenza e di complessità sonora. Si gioca con dinamiche espansive ed improvvisazioni più audaci, lasciando emergere un’atmosfera drammatica e imponente. Il sassofono di Ottaviano si fa narratore intenso, cesellando fraseggi impetuosi. Laddove Lilliput racconta, il piccolo, Brobdingnag esplode nella sua grandezza. Il quartetto decreta una narrazione strumentale che sembra espandersi oltre le note, con interventi solistici che si aprono e si chiudono come pagine di un libro antico, in una sorta di risveglio improvviso, un’epifania musicale. «Apure En Un Viaje» è una cinetica composizione con DNA venezuelano, in cui la sezione ritmica diventa protagonista, spingendo il brano in avanti con un groove pulsante. Il quartetto si muove con naturalezza tra echi latini e jazz moderno, mantenendo una risolutezza interpretativa che intrappola facilmente il fruitore.

«Kinder-Yorn» proveniente dalla Polonia è un componimento dal tono riflessivo. La trama sonora risulta costruita su un dialogo a più livelli, con il basso che suggerisce un percorso armonico stratificato, portando con sé una dolcezza fragile, mentre il sax intreccia una melodia quasi sussurrata, alternandosi con la chitarra in una recitazione sobria e poetica. Il tema centrale evoca memorie sfuggenti, quasi sussurrate. Qui il tempo si ferma. L’ascoltatore è invitato ad uno spazio sospeso, un luogo di ricordi e risonanze: il suono della memoria, dell’infanzia che sfugge ma resta impressa nella memoria. In «Laputa / Palestine Song» il dialogo risulta meno serrato, mentre ogni strumento offre una prospettiva diversa. La fusione tra riferimenti colti e attualità si traduce in un equilibrio sonoro complesso, con Brunod che guida la tensione melodica e Barbiero che scandisce ritmi spezzati ed imprevedibili. «El Pueblo Unido», classico della resistenza cilena, viene reinterpretato con estremo vigore. Il quartetto non tradisce lo spirito originale, ma lo rielabora e ne enfatizzando la forza trans-nazionale. Gli interventi strumentali sono misurati ma densi, lasciando spazio ad una progressione evocativa che si trasforma in un grido collettivo. Il tema centrale viene eseguito sulla scorta di una consapevolezza che va oltre la semplice interpretazione strumentale. In «Houyhnhnm / Palestine Song» si gioca con le suggestioni sonore, esplorando dimensioni inaspettate con un accento sulla musicalità astratta e liquida. Il costrutto si sviluppa per stratificazioni, con la chitarra che interviene come un’eco lontana, mentre la sezione ritmica dipinge il fondo sonoro con tocchi impercettibili. L’effetto è quello di un paesaggio sospeso e mutevole che sfugge e che cambia continuamente forma. «Ethiopian Song» suggella l’album facendo emergere l’essenza più spirituale del progetto. Il line-up si lascia trasportare dalla struttura aperta, con Brunod e Ottaviano che alternano momenti di lirismo struggente a slanci improvvisativi. L’escursione si dissolve lentamente, chiudendo l’album con una sensazione di possibile apertura. È una conclusione che lascia spalancata la strada a nuovi percorsi, invitando all’ascolto come esperienza e come (ri)scoperta continua. L’itinerario musicale intrapreso dai quattro musicisti somiglia più ad un pellegrinaggio dell’anima, dove ogni composizione diventa il capitolo di un racconto globale, trasformato attraverso la libertà espressiva di ogni singolo attante coinvolto. La capacità del gruppo di fondere elementi popolari e sperimentali, senza mai spezzare il filo conduttore dell’arte improvvisativa, è un pregio assai raro. Nelle pieghe dell’album c’è un senso di movimento incessante ed una continua ricerca di nuovi approdi sonori. Siamo di fronte ad un concept che si nutre di vita e di pensiero, lasciando il segno, grazie alla sua attitudine a raccontare storie senza bisogno di parole.

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