Questo disco dimostra quanto Art Pepper sia stato un degno erede di Charlie Parker, non un clone, uno succedaneo passivo e calligrafico, come tanti epigoni di Bird spesso supervalutati.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Talvolta si dibatte sull’uso eccessivo di «capolavoro», termine alquanto abusato, In realtà tale definizione andrebbe sempre contestualizzata. Ci siamo spesso interrogati su che cosa sia veramente un capolavoro in ambito jazzistico: un disco che ne rivoluziona il linguaggio ed afferma un nuovo stile o, magari, un successo commerciale senza precedenti? La storia del jazz c’insegna, altresì, che a molti artisti, nel corso dei decenni, sono stati attributi capolavori d’ufficio per compiacenza della critica o come riconoscimento premiale alla lloro opera complessiva. In fondo, chi possiede un bilancino di precisione per stabilire quali siano i parametri di un capolavoro? Insomma, l’infallibilità non sembra essere stata la prerogativa dei critici musicali e degli storici del jazz, sovente sceveratori a tutto vantaggio delle proprie scelte editoriali, nonché complici della miopia di taluni discografici frettolosi e beoni, interessati solo al risultato in termini di mercato. Quante eccellenti sessioni e quanti nastri sono rimasti per anni seppelliti negli archivi delle etichette discografiche, per poi essere riesumati ex-post, a distanza di decenni, e rivalutati come capolavori tardivi e non compresi. Non a tutti fu concesso quella sorta di riconoscimento e di «orgoglio che ti scevra dal vulgo», avrebbe detto il Parini. Nonostante il vallo temporale, molte di queste registrazioni, al momento della pubblicazione, non avevano perduto, però, un minimo di mordente e di attualità. Forse tutto ciò è accaduto con Art Pepper, anche a causa di una vita randagia e della sua carriera discontinua.

«New York Album» è semplicemente un capolavoro di jazz moderno non segnalato dalle enciclopedie, una lezione di alta scuola bop, un lectio magistralis tenuta da quattro importanti accademici, i professori Art Pepper al sax alto, Hank Jones al piano, Ron Carter al basso ed Al Foster alla batteria. Registrato nel febbraio del 1979 a New York, non fu molto considerato: era quello un periodo di caos per il jazz, offuscato dalle contaminazioni ed imbarbarito dal corsa alla fusion a tutti costi. Solo nel 1985 l’etichetta Galaxy si rese conto che quei nastri contenevano un piccolo gioiello di bop-post moderno, una dispensa utile a chi volesse fare una full immersion nella sostanza del jazz e capire l’importanza del bop come enzima vitale, importante strumento di divulgazione e mantenimento del jazz stesso.

Basta ascoltare poche note di «A Night In Tunisia» di Dizzy Gillespie, per capire quanto Art Pepper sia stato un degno erede di Charlie Parker, non un clone, uno succedaneo passivo e calligrafico, come tanti epigoni di Bird spesso supervalutati. Il «parkerismo» di maniera è una delle piaghe inguaribili di un certo jazz, una sorta di aerofagia culturale, a volte una profonda ferita, altre una malattia esantematica da cui in tanti, per fortuna, si autoimmunizzano. «A Night In Tunisia», srotolata sulla distanza di quasi 10 minuti, conferma i talenti Pepper, ma soprattutto una forte coesione fra i sodali, i quali a turno si ritagliano un frammento di gloria, dando un saggio accademico dell’importanza del bop in tutte le sue molteplici sfaccettature. Si potrebbe lanciare un’OPA e sostenere che questa sia una delle migliori versioni mai registrate, facendo cresce il flottante dell’immarcescibile creazione di Diz. «Lover Man» è una fuga in solitaria di Art Pepper, unica traccia registrata separatamente in California, che dimostra come il «bastian contralto» avesse una voce unica del tutto inequivocabile a prescindere da metodo parkeriano di riferimento. «Straight No Chaser» del «Monaco» è un altro esempio di alta scuola bop, rinverdito da una modalità d’impiego più evoluta, dove la retroguardia ritmica garantisce un timing perfetto, mentre il pianoforte quando varca la prima linea, usa la tecnica del fuori gioco, smarcandosi facilmente dallo stile monkish.

La B-Side, evidenzia anche lo stile compositivo di Pepper, bastano pochi soffi nel sax per stabilire un rapporto duraturo e reiterato con l’ascoltatore che si lascia trasportare piacevolmente da «Duo Blues» un inno alla componente più nera del jazz, che, declinato come un mantra, conferma la totale dedizione di un viso pallido – peraltro dotato di un’indubbia blackness – agli stilemi del jazz afro-americano. A suggello «My Friend John», si potrebbe supporre ed immaginare chi sia quel John, anche perché qualche traccia di «coltreismo» (Art Pepper ne fu affascinato durante la detenzione, tanto da passare momentaneamente al sax tenore) è facilmente individuabile, ma disseminata qua e la come i sassolini di Pollicino, che gli consentono di ritrovare la via di casa, ma ciò che avvince è la pulizia del suono e l’armonia d’insieme. A parte il flusso energetico proveniente dalla retroguardia ritmica costante e tracciato su su carta millimetrata, una legione d’onore va a ad Hank Jones che mantiene il pianoforte in un diretto contatto con le muse dell’Olimpo. Al netto di ogni supposizione o presupposizione, «New York Album» di Art Pepper è un disco che non dovrebbe mancare in nessuna collezione jazz che si rispetti.