Angelo Olivieri

«Senza la tromba questa musica avrebbe molto meno senso».

// di Francesco Cataldo Verrina //

Abbiamo incontrato Angelo Olivieri, musicista e docente con un’articolata e lunga attività in ambito jazzistico e non solo, il quale da qualche tempo sta portando avanti, primus inter pares, con alcuni colleghi, un progetto denominato «The Boogaloo And The New Land», legato alla figura storica del trombettista afro-americano Lee Morgan.

D Da cosa nasce la scelta della tromba?

R La scelta della tromba è avvenuta nella maniera forse più banale. Mio padre era trombettista e anche se non più in attività a livello professionistico, suonava spesso la tromba a casa e continuava a suonarla nella banda del mio paese, Pitigliano. Non era un vero e proprio jazzista, ma aveva suonato jazz in orchestra e aveva il suono più bello che ad oggi abbia mai sentito. Non è stato difficile innamorarsi di questo strano pezzo di metallo che mi aiuta ad esprimere meglio di ogni altra cosa la mia gioia, la mia tristezza, la mia rabbia, le mie emozioni.

D Che cosa rappresenta per te la tromba nel jazz?

R La tromba nel jazz è Davis, Armstrong, King Oliver… è la storia di questa musica. Senza la tromba questa musica avrebbe molto meno senso.

D A parte Lee Morgan, quali sono i tuoi «trombettisti del cuore»?

R Tre già li ho citati, ma ce ne sono molti altri. Ognuno ha dato qualcosa di importante. Dizzy, Hubbard, Booker Little, Don Cherry, Lester Bowie (un altro cui ho dedicato un tributo qualche anno fa), Donald Byrd, Nat Adderley, Tom Harrel, Kenny Dorham. Ma anche Rava e Tomasz Stanko. Tra i contemporanei un posto importante ce lo ha sempre avuto Roy Hargrove. Amo molto Terence Blanchard e Niels Petter Molvaer… me ne vengono in mente talmente tanti. Uno che sto ascoltando molto ultimamente e che non ho purtroppo mai visto dal vivo è Ron Miles. Mi piacciono molto anche Phil Slater e Dontae Winslow. Due musicisti molto diversi che in questo periodo ascolto un bel po’. Ho ascoltato anche molto Chet Baker, una figura particolare, su cui ho sentito poche volte giudizi equilibrati, almeno secondo me. Poi ci sono anche tanti italiani molto bravi, alcuni anche non abbastanza conosciuti. Bisogna essere curiosi e cercare. Ah, mi piace anche Marsalis, soprattutto per questo gran lavoro che ha fatto sul jazz delle origini che amo molto… ecco, a proposito delle origini, amo tutti i trombettisti che hanno girato intorno all’orchestra di Ellington. Sicuramente sto dimenticando qualcuno, ma sono veramente pochi quelli che non mi piacciono.

D Secondo te ci sono trombettisti che ami e che ritieni siano sottovalutati?

R Farei forse prima a dirti i sopravvalutati, perché, se ci sono, sono molto pochi. Per me ogni trombettista bravo che faccia fatica a vivere di musica è sottovalutato, direi quasi svalutato. In Italia (e nel mondo) purtroppo c’è un sistema che in ogni campo tende ad essere apicale, così va a finire che si ascoltano tantissimo pochi musicisti e ce ne perdiamo altri, altrettanto degni di essere ascoltati. Ad ogni modo c’è un trombettista di cui si parla tantissimo che a mio avviso finisce sempre per essere sopravvalutato o sottovalutato. Mi riferisco a Chet Baker. Troverai tanta gente che ama Chet Baker alla follia e che addirittura vede in lui l’essenza stessa del jazz, mentre nel mondo della critica è spesso “bastonato”, per la ragione che di fatto ha suonato sempre e solo standards, ha usato sempre lo stesso linguaggio. Questo giudizio però non tiene conto di due cose. La prima è che Chet ha fatto “cantare” le frasi di Parker; la seconda è che se Chet era in vena, ogni nota era una sassata nello stomaco. Io credo fosse apprezzato dagli altri musicisti (non da tutti, ma da molti) soprattutto per questa sua seconda dote, per il gran feeling che aveva ogni volta che soffiava dentro una tromba… o dentro un microfono.

D Tre regole di base per entrare nel mondo della tromba, più strettamente della tromba jazz?

R La tromba è uno strumento Zen. Se accetti le sue regole, ti darà grande soddisfazione, ma non vi è modo di averci a che fare senza seguire le sue regole, che sono molto semplici: esercitarsi quotidianamente, essere felici di farlo, continuare a farlo. Per quanto riguarda la tromba nel jazz, la specificità sta nel fatto che in quest’ambito è necessario avere un proprio suono. Cercarlo in maniera instancabile e non essere mai soddisfatti. Perché il suono che hai deve sempre migliorare. Il lavoro sul suono è quello che amo di più, da sempre.

D Hai mai pensato di suonare, come fanno molti tuoi colleghi, il flicorno. Magari ci stai pensando o l’hai già fatto?

R Il mio rapporto col flicorno è strano. Ho un suono piuttosto rotondo con la tromba e questo mi porta meno a cercare di suonare il flicorno. Però l’ho usato e lo uso ancora in poche occasioni… proprio quando è necessario.

D La tua visione del jazz: pensi che sia possibile fare un jazz esclusivamente europeo, bypassando la grande tradizione afro-americana?

R Beh, no. Credo che nessuno voglia fare jazz esclusivamente europeo. Il jazz è una musica che nasce dalla commistione, dalla condivisione di visioni, di culture, oltreché di musica. Se poi facciamo un discorso filologico, ti dico che la questione non mi appassiona molto. Io sono della scuola di Ellington per cui esiste la musica di due tipi: quella buona e l’altro tipo.

D Non essere diplomatico: mi fai tre nomi di trombettisti italiani viventi che stimi di più. Non necessariamente famosi?

R Non è per diplomazia, ma il fatto è che ne stimo molti di più. Farei prima a dirti quelli che non stimo, ma siccome non voglio far loro pubblicità, non ne parlo. Approfitto di questa domanda però, per tornare su un argomento che mi sta a cuore. L’appello che faccio è: andate a vedere e ad ascoltare i musicisti che non conoscete. Potreste avere delle incredibili sorprese.

D Come ti approcci alla figura di Lee Morgan con spirito interpretativo e rispettoso del suo cifrario stilistico o attraverso una calibrata reinvenzione?

R Da musicista non conoscevo molti aspetti della vita di Lee Morgan. Non parlo delle dipendenze o della morte assurda, ma dei rapporti con i discografici. La tensione tra la necessità discografica di inventare un’altra The Sidewinder e la necessità personale di esplorare nuovi territori, però l’ho sempre percepita. Il “mio” omaggio a Lee Morgan nasce da qui (dico mio rispetto al mio approccio, ma questo è un progetto collettivo), da quella New Land verso cui io l’ho sempre sentito lanciato. E con molta presunzione ho deciso di provare a “vedere l’effetto che fa”. Partire da lì. Farsi un film su un soggetto totalmente fuori da ogni coro

D Secondo te in che cosa consiste l’attualità di Lee Morgan e come lo definiresti in un’aula piena di studenti?

R Parlare in un’aula piena di studenti di Lee Morgan, sarebbe già un mezzo sogno. Come lo definirei: eccezionale, in tutti i sensi. E proprio perché eccezionale sarà sempre attuale. L’eccezionalità di Morgan è nell’essere sempre se stesso, nel dare sempre tutto. Ci sono dischi dove senti che ha un “chop” ridotto ai minimi termini e ti piazza comunque soli fantastici. L’approccio alla tromba, la felicità di suonare che è propria dei grandi, come Armstrong. Un fraseggio e un suono personalissimi. Queste sono cose senza tempo e quindi anche attuali.

D A tuo avviso, in che misura l’hard bop è stato determinante nell’evoluzione del jazz moderno?

R Questa è una domanda difficile, perché non sono un musicologo e amo l’hard-bop, così come il bebop e il free-jazz e il jazz-rock… Il Blue Note Sound è alla base di tantissima musica non solo jazz. Io per esempio ho ascoltato prima “Cantaloop (US3)” di Cantaloupe Island. Con “The Sidewinder” James Brown ci apriva i concerti e con i sample del batterista di Brown c’hanno fatto mezzo repertorio hip hop, altra musica che amo. L’hard- bop è un momento dell’evoluzione del jazz, uno di quelli cruciali, come il bebop. Un momento senza il quale molta musica che ascoltiamo non sarebbe la stessa.

D I tuoi dischi sono sempre stati trasversali e basati su traiettorie sonore non prevedibili. Non temi che il ritorno all’hard bop ed al boogaloo possa essere visto come un passo indietro o comunque un tornare a guardare nello specchietto retrovisore della storia?

R Non saprei. Intanto, come dicevo prima, non si tratta di un tributo in stile. Non siamo una cover band, con tutto il rispetto per le cover band. Si tratta di maneggiare un materiale che secondo il mio punto di vista è rimasto incompiuto. Sento Morgan come una sorta di Coltrane della tromba, che però non ha avuto modo, per ragioni che non conosco, ma posso anche immaginare, di percorrere tutta la sua strada. Schiavo del “mestiere” e di uno stile di vita “particolare”? Non sufficientemente capito e assecondato? Lee Morgan, pur avendo fatto cose incredibili, è rimasto, secondo me, ai blocchi di partenza. Ogni tanto provo ad immaginare cosa avrebbe potuto fare dentro “A Love Supreme”e nessuno mi toglie dalla testa che avrebbe fatto qualcosa di altrettanto meraviglioso. In sostanza questo è un tributo ad un outsider ad un personaggio non totalmente espresso. Quando sento la ripresa del solo in “Mr. Kenyatta”, penso che lì c’è una forza espressiva dirompente. C’è un legame profondo tra il suono e lo “spirito”. Questo poi, come ti dicevo, è un progetto collettivo e ognuno di noi mette in circolo le sue energie secondo il suo punto di vista, il suo approccio, il suo amore per la musica, quella del primo tipo, per tornare a Ellington. Il concerto è organizzato in forma di suite in quattro movimenti; c’è un’introduzione, una parte dedicata al periodo Jazz Messengers, una dedicata ai masterpieces (ne scegliamo un paio ogni volta non necessariamente sue composizioni, ma anche composizioni in cui ha lasciato un’impronta chiara e determinante) e la parte più corposa dedicata all’opera che è al centro di questo omaggio “Search for the New Land”. Poi ci sono un paio di composizioni mie “Lilies for Lee” e “One more for Morgan” a chiudere la suite. Tornando alla questione dello specchietto retrovisore, anche quello è uno strumento utile. Io credo che nessuno guardi fisso nello specchietto retrovisore, ma tutti sappiamo da dove viene la musica che ci piace suonare e rispettiamo profondamente quelle origini, pur essendo noi stessi, musicisti nel 2025. Il tempo cronologico nell’arte è una variabile molto meno lineare di quanto non sia nelle routine quotidiane di ognuno di noi. Ci sono cose “vecchie” fatte ieri o che verranno fatte in futuro e cose “nuove” di 400 anni fa, basti pensare alla musica di Gesualdo da Venosa. Io ho lo stesso approccio quando suono questo omaggio a Lee Morgan e quando suono con Electric Sheep Collective. La musica è quello che sei, soprattutto se hai la presunzione di suonare jazz. Poi basta ascoltare bene Davis e si capisce meglio tutto.

D Quando sarà concretizzato su disco questo tuo (vostro) omaggio a Lee Morgan che adesso state testando attraverso l’attività live?

R Con Vincenzo Vicaro, Alessandro Bravo, Enrico Mianulli e Claudio Gioannini che sono gli altri musicisti del quintetto, stiamo valutando se andare in studio per fissare meglio le idee o se continuare a rodare il progetto ancora un po’ di tempo. Sarai tra i primi a saperlo.

Angelo Olivieri
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