// di Francesco Cataldo Verrina //
Ho incontrato Fabio Morgera a Perugia, dove attualmente è docente di composizione jazz al Conservatorio Morlacchi. Fabio è anche uno dei tre giudici del Premio Perugia Alberto Alberti per il Jazz.
D Fabio Morgera, musicista, arrangiatore, compositore e docente. Ma in poche battute, chi è Fabio Morgera?
R Un girovago che ha deciso di mettere la testa a posto.
D Quindi dopo la lunga esperienza americana sei ritornato in Italia?
R Sì, sono già dieci anni che sono tornato con moglie e figlio a Firenze dove ero cresciuto.
D Però tu sei originario di…?
R Io sono nato a Napoli e il mio cognome è originario di Ischia. Bellissima isola dove abbiamo un’associazione e ogni anno organizziamo dei concerti: speriamo di crescere!
D Tu sei uno dei giudici del premio Perugia Alberto Alberti per il Jazz, Hai analizzato più o meno una trentina di partecipanti tra gruppi e solisti. Come ti è sembrato il livello di partecipazione al premio?
R Ottimo, molto bello. Ci sono tanti ragazzi che suonano bene, molte proposte interessanti . Poi ovviamente io mi sono soffermato su quello che diceva il titolo. Perché se è una band devi giudicare tutta il gruppo. Se invece è un solista accompagnato devi giudicare solo quel solista. Però diciamo che alcuni di quelli che ho ascoltato sono veramente bravi. Diciamo che nella media, fra tutti coloro che hanno partecipato al Premio Alberti c’è un buon livello.
D Tu hai avuto una bella e cospicua esperienza americana. Quando tu sei arrivato a New York quale è stata la tua prima sensazione? Hai detto vengo a New York per fare che cosa?
R Io studiavo alla Berkeley di Boston e lì il sogno di tutti i ragazzi è passare a vivere a New York e provare ma anche solo respirare quell’aria, perché a quel tempo c’erano ancora i Gillespie, i Blakey c’erano ancora tutti i grandi per cui anche solo stare lì…
D Solo a respirare l’aria dici tu?
R Sì, solo andare lì nei club, ascoltarli, vederli da vicino, già quello era abbastanza. Non è che uno pensa sempre solamente alla carriera. Forse avrei avuto una carriera ancora migliore se fossi rimasto in Italia. Invece sono andato in America proprio per amore della black music. In Italia, suonavo con Gaslini. In quel periodo ero al top, ero tra i musicisti più gettonati, più pagati, e quindi ho lasciato una carriera avviata per un forte interesse nei confronti della musica afro-americana, perché mi ero reso conto che c’era una differenza.
D E come ti sei approcciato all’universo degli afro-americani? Come è avvenuto il tuo contatto e soprattutto come quel mondo ha recepito Fabio Morgera?
R Ho capito che i neri, non generalizzando ovviamente, anche quando possono sembrare distanti, distaccati, hanno tutte le ragioni per dubitare di un bianco, per cui mi sono sempre avvicinato in maniera molto rispettosa, umile e amorevole, e loro mi hanno sempre accolto benissimo. Forse, questo non lo so, potrebbe darsi per il fatto che io sia invalido. Questa invalidità si vede ed è molto chiaro che faccia cambiare subito atteggiamento, perché chi ha già sofferto nella vita, se vede un bianco ricco, insomma lo vede in una maniera diversa rispetto ad uno ha un’invalidità, quindi capisce che anche lui ha sofferto. Poi non lo so, però io ho avuto questa sensazione.
D Possiamo andare indietro nella storia, tu pensa a Alfred Lion che arriva ebreo profugo dalla Germania, perseguitato dai nazisti, arriva a New York fa la blu note e fa suonare al 99% afroamericani, quella fu una grande rivoluzione come dici tu, chi ha sofferto capisce immediatamente, c’è l’empatia con chi in quel momento sicuramente ha delle sofferenze o comunque delle diversità. Poi come ti sei integrato, le prime esperienze, cosa è accaduto?
R Naturalmente, all’inizio, a New York ho avuto anche fortuna perché riuscivo a suonare già nei locali facilmente. Il mio primo batterista è stato Billy Hart, poi ho chiamato Mark Turner, Duane Burno, un bassista che purtroppo è morto e giovane. Ho chiamato per la maggior parte neri.
D Non c’era una discriminante comunque?
R Non è una questione di colore di pelle, è come suonano, se rispetti la tradizione afro-americana io ti stimo moltissimo. Sono stato spesso travisato e non sono assolutamente un razzista al contrario, è solo una questione di cultura, un Adam Nussbaum suona come un nero.