…risulta assai difficile suonare Dolphy senza Eric. Guai a farne una copia carbone! Occorre essere dotati naturalmente di un pensiero laterale, soprattutto aver operato a lungo su terreni sonori accidentati ed imprevedibili, caratteristiche che non mancano di certo ai Nexus, gruppo che da sempre esplora i territori più impervi del jazz e zone limitrofe.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Maltrattato in vita dalla stampa e da taluni scribacchini, per ovvia miopia e scarsa lungimiranza, Dolphy fu rivalutato post-mortem con tutti gli onori, perfino con una serie di riconoscimenti ufficiali. Nonostante l’esigua produzione discografica, solo sette album di studio, molti live, tanti pubblicati dopo la sua morte, il polistrumentista californiano si è trasformato nel corso dei decenni in un’icona, nonché in un polo magnetico di attrazione per le avanguardie tout-court fino ai nostri giorni. Riconosciuto come uno dei più geniali innovatori in ambito post-bop, ha finito per diventare una sorta di indicatore di marcia per i dirottatori e per i propugnatori del jazz free-form, pur avendo rispettato sempre la «regola». Dolphy appartiene a quella schiera di jazzisti con cui non è impresa facile confrontarsi. Si ripete lo stesso ritornello: risulta assai difficile suonare Dolphy senza Eric. Guai a farne una copia carbone! Occorre essere dotati naturalmente di un pensiero laterale, soprattutto aver operato a lungo su terreni sonori accidentati ed imprevedibili, caratteristiche che non mancano di certo ai Nexus, gruppo che da sempre esplora i territori più impervi del jazz e zone limitrofe.

Eric Dolphy è stato un magnificatore che significa innanzitutto magniloquente, un artista capace di ingrandire e rendere speciale tutto lo scibile sonoro con cui veniva a contatto. La sua breve vita terrena si è consumata in un contesto ambientale e sociale accidentato e pieno di insidie, nonché esacerbato da una critica ostica e supponente che ne metteva costantemente in discussione l’incessante lavoro di sperimentazione e di ricerca; soprattutto quel suo modo di suonare in maniera non convenzionale, in cui sembrava voler divorare le note, e mai ligio alle normative vigenti del dilagante bop che, dopo la rivoluzione operata da Parker, aveva vissuto di rendita per oltre quindici anni, mentre musicisti come Dolphy tentavano di rimodularne sia la sintassi che le regole d’ingaggio. Nell’arco di pochi anni Dolphy divenne un ingranaggio importante nella produzione di alcuni jazzisti che vedevano oltre l’orizzonte di una ripetitività manieristica, ma che come lui erano animati da un perforante desiderio di cambiamento. Alcuni colleghi ne intercettarono le potenzialità, ne compresero il talento e ne trassero vantaggi accogliendolo nel loro team di lavoro come sideman, arrangiatore o co-leader. Tra questi, John Coltrane, ma soprattutto Charles Mingus che, per lungo tempo, ne fece il suo alter ego imponendolo come uomo di punta in alcuni capolavori discografici ad imperitura memoria.

Il progetto dei Nexus, «Plays Dolphy» si dipana sulla scorta di sei composizioni dolphyane ed una lunga rilettura del «Jitterbug Waltz» di Fats Waller, secondo una modalità d’impiego che da sempre caratterizza la produzione del batterista Tiziano Tononi e del sassofonista Daniele Cavallanti, i quali in passato avevano già tributato altri eroi maudit del jazz moderno come Albert Ayler, John Coltrane, Ornette Coleman, Rahsaan Roland Kirk, Charles Mingus, John Carter e John Gilmore. La scelta di Dolphy diventa così per Tononi e Cavallanti un altro urlo di guerra ed una nuova sfida da consumare sul filo dell’alta tensione creativa ed emotiva, forti del sostegno di quattro sodali capaci di camminare sui carboni ardenti della trasversalità: Achille Succi alto sax, clarinetto basso & Bb Clarinet, Emanuele Parrini violino, Alessandro Castelli trombone, Luca Gusella vibrafono ed Andrea Grossi basso. Registrato al Real Sound Recording di Milano, il 15 e il 16 ottobre 2023, l’album mostra due anime inquiete sostanziandosi attraverso gli arrangiamenti di Tononi (tracce 1, 6 e 7) e Cavallanti (tracce 2, 3, 4 e 5), i quali trovano il giusto collettore nel violinista Emanuele Parrini.

Nell’iniziale «Hat And Bread» la mano negli arrangiamenti di Tononi sobbalza attraverso una tempesta di ritmo scandito sia dalla batteria che dal metallofono, complice un basso pizzicato che allude ad una danza apotropaica ed un violino trillante che sembra riprodurre il dissonante canto degli uccelli molto amato da Dolphy, fino al sopraggiungere dei fiati che s’inerpicano in una perifrasi atonale fino all’ultima nota. «245» è un blues friabile ed evanescente, in cui trombonista Alessandro Castelli trascrive alla sua maniera una melodia brunita e sotterranea, quasi come un fiume carsico sommessamente irruento. «The Jitterbug Waltz» è uno standard di Fats Waller che mai nessuno prima aveva rivoltato e rimodulato come Dolphy, il quale possedeva l’abilità di trasformarlo in ogni occasione, attraverso cambi di mood e salti armonici. Nell’album dei Nexus, il violino di Parrini, il clarinetto di Succi e l’adamantino vibrafono di Luca Gusella aggiungono alcuni contrassegni salienti di assoluta novità. «Lotsa Potsa» viene restituita al mondo degli uomini come un incessante ed infuocato costrutto a trazione integrale fitto di scaglie funkified, su cui i fiati s’intrecciano e di dimenano sostenuti dai colpi furenti della retroguardia, in particolare da un Tononi in preda ai demoni creativi. «Serene» è un complesso ingranaggio armonico introdotto dal basso ad arco e dall’incisivo pizzicato di Andrea Grossi che fluidificano il caos congiunturale favorendo l’ascesa di Achille Succi che, sfoderando il clarinetto basso, interviene sulla melodia dolfyana come su una tela impressionista, arricchendola di inediti cromatismi. «Straight Up And Down», appare come una sagoma sonora barcollante, introdotta dal violino e dal vibrafono che disegnano i passi di un ubriaco rendendo quanto mai veritiera da descrizione che ne faceva lo stesso Dolphy, per poi arroventarsi in un inteso scambio tra violino e sassofono. In conclusione «Out To Lunch», il capolavoro del polistrumentista tributato, in cui i Nexus osano dove neppure Dolphy aveva ancora osato, deragliando verso una dimensione più coltraniana calata in un intreccio strumentale modello post-Mingus. Per descrivere «Nexus Plays Dolphy» si potrebbe usare il termine rilettura, in verità siamo di fronte ad una vera e propria reinvenzione del modulo dolpyano.