…solo un conservatore diffidente e refrattario alle novità che non provenissero da lui. Poco interessante, per le nuove generazioni di jazzisti afro-americani che lui definiva «giovani con le pezze al culo», ma che in fondo non facevano nei suo confronti – evitandolo – una scelta ad personam, ma di campo, poiché interessati alla New Thing o ad altre forme di jazz più evoluto…

// di Francesco Cataldo Verrina //

Gerry Mulligan è stata una figura prominente del jazz dell’immediato dopo guerra, contribuendo cambiarne il linguaggio. La sua determinante partecipazione al «Birth Of The Cool», consegnò immediatamente il baritonista newyorkese alla storia. Oggi ex-post possiamo affermare che l’incontro con Miles Davis, fu per Gerry Mulligan, al netto della sua genialità, un passaporto per le stelle che consente tutt’ora al suo personaggio di viaggiare metaforicamente all’interno della storia del jazz, più di ogni sua altra avventura discografica o concertistica: «Sono stato fortunato a trovarmi nel posto giusto al momento giusto per far parte della Miles Band. – Conferma Mulligan – A quel tempo ero già nel giro da un paio d’anni con varie formazioni, ma incoraggiato da Gil Evans decisi di rimanere a New York. Con tutte le band che c’erano all’epoca, grandi e piccole, il momento risultava fortemente stimolante dal punto di vista musicale e tutti sembravano gravitare nell’open space di Gil. Tutti influenzavano tutti, mentre Charlie Parker era l’influencer numero uno per tutti noi». Gerald Joseph «Gerry» Mulligan, detto anche «Jeru,» nasce a New York, il 6 aprile 1927. Gerry cresce in una famiglia tradizionale con un padre autoritario, il quale pretendeva che i suoi figli diventassero ingegneri. Il giovane Jeru, musicalmente autodidatta, lasciò presto gli studi per aggregarsi ad un’orchestra, divenendo negli anni un brillante arrangiatore ed un superbo sassofonista baritono. Il primo gruppo di un certo rilievo con cui il sassofonista iniziò farsi notare fu l’Elliot Lawrence And Mulligan, di cui Gerry scrisse tutti gli arrangiamenti. In quegli anni, Charlie Parker e Dizzy Gillespie rimodulavano il sistema relazionale fra i musicisti mettendo al bando le vecchie regole sintattiche del jazz ed operando una revisione del vernacolo tradizionale, attraverso differenti stili armonici ed inedite regole d’ingaggio.

Poco più che adolescente, Mulligan suonò e scisse per l’orchestra di Gene Krupa, quindi per Claude Thornhill. In questo periodo cominciò a studiare con Gil Evans frequentando artisti come John Lewis, Charles Mingus, Lee Konitz, Thelonious Monk, Miles Davis, Zoot Sims e Al Cohn. Alla fine degli anni Quaranta Mulligan trascorse la maggior parte del tempo nel loft di Gil Evans nella zona di Madison Square Gardens, un luogo di confronto nel quale, in vari momenti, facevano capolino George Russell, John Lewis, John Carisi, Dave Lambert e Charlie Parker, i quali ascoltavano la musica consigliata da Gil Evans. L’appartamento di Gil Evans, spesso mitizzato dalle cronache, era poco più di una stanza in un seminterrato sulla 55ª Strada Ovest, vicino alla 5ª Avenue. In realtà era ubicato dietro una lavanderia cinese e vi passavano dentro tutte le tubature dello stabile. Oltre ad un lavandino, un letto, un pianoforte, una piastra elettrica e nessun riscaldamento, c’erano solo poche sedie sgangherate per sedersi. Mulligan descrive così i suoi colleghi dell’epoca: «John Carisi era una testa calda, ma chiunque scriva un pezzo come «Israele» non può essere del tutto negativo, giusto? John Lewis era il nostro classicista; George Russell un grande innovatore; John Benson Brookes un sognatore di mondi impossibili; Dave Lambert il nostro Yankee pratico e tuttofare; Billy Exiner, batterista di Thornhill, era il filosofo di casa con un bellissimo atteggiamento verso la vita e la musica. Joe Shulman credeva che Count Basie fosse l’unico ad avere una sezione ritmica decente; Barry Galbraith, un musicista di grande bellezza; Specs Goldberg un spirito allegro, un musicista intuitivo; Sylvia Goldberg (non parente), studentessa di pianoforte, un turbine di creatività. Blossom Dearie, incommensurabile; Lee Konitz un genio; Max Roach geniale ed ineguagliabile nel suo modo di suonare la batteria; Bill Barber un musicista eccellente, trascriveva i cori per tenore di Lester Young e li suonava con la tuba. Per il resto nella big band, J.J. Johnson e Kai Winding si alternarono al trombone. Non fu facile trovare suonatori di corno francese in grado di eseguire la partitura con un fraseggio jazz. Tra quelli che partecipavano alle nostre prove c’erano Sandy Sigelstein, Junior Collins che conosceva bene il blues e Jim Buffington. Su tutti svettava Miles Davis, il band-leade., colui che trasformo un progetto teorico in qualcosa di concreto: prese l’iniziativa e mise in pratica le teorie, organizzò le prove e noleggiò le sale convocando i musicisti più adatti». Era un momento ricco di fermenti in cui venivano teorizzate nuove idee e riflessioni su come guadagnarsi da vivere e ristrutturare il jazz, che Mulligan rammentò così, ma con qualche contraddizione, forse risentimento verso il Miles degli anni Sessanta/Settanta che lo aveva sistematicamente ignorato: «Miles Davis voleva davvero farne qualcosa di suo, fu lui a tirare fuori il progetto embrionale dal seminterrato, anche i soldi, ed a trasferirlo in sala prove, il che fu una sorta di benedizione, poiché Miles fu responsabile della prima spinta. Ma poi, quando ci siamo messi al lavoro, non ha avuto la capacità di assumere il ruolo di leader. Gil Evans scrisse solo un paio di temi poiché impegnato con l’ensemble di Thornhill». Per verità storica, furono John Lewis e Gerry Mulligan che misero nero su bianco quasi tutte le partiture, sebbene quel progetto senza Miles Davis non sarebbe mai uscito fuori dal fatidico seminterrato, come lo stesso Mulligan definisce l’alloggio di Gil Evans. Uno dei limiti di Mulligan, nel corso dell’evoluzione del jazz moderno, fu quello di rimanere ancorato ad un concetto di jazz orchestrale tardi anni Quaranta, sia pur praticato con piccoli combo di quattro, max sei elementi, finalizzati più all’intrattenimento che non alla riscrittura della sintassi jazzistica.

Qualche tempo dopo Mulligan cedette alle lusinghe dell’eroina, ma una certa Gail Madden cercò il baritonista per aiutarlo a superare la dipendenza. Era una giovane art director che sognava di allestire un gruppo di «ricerca creativa», sperando di utilizzare Max Roach, George Wallington e Mulligan, il quale raccontò di lei come di una donna straordinaria, avanti anni luce rispetto al suo tempo, la quale utilizzava il «condizionamento del sonno» e che, alla fine, guarì perfino la depressione del sassofonista. Lo stesso Charlie Parker si era mostrato entusiasta di certe sue idee. La coppia lasciò New York per trasferirsi in California attraversando l’America in autostop. La Madden conosceva Bob Graettinger – compositore al soldo di Stan Kenton, nonché autore di «City Of Glass» – che la donna aveva aiutato a sconfiggere la dipendenza. Fu organizzata un’audizione e, dopo un accordo di collaborazione, Mulligan scrisse «Young Blood» e «Walking Shoes» per l’ensemble di Keaton: «Gail era una donna brillante» Scrisse Mulligan. «La quale mi ha aiutato in tanti modi, semplicemente impagabile». Il quartetto di Gerry Mulligan fece le sue prime registrazioni nel 1952, durante il periodo in cui si esibiva all’Haig Club di Los Angeles. Gerry spiegò in seguito che Erroll Garner suonava in quel club usando un Baldwin a coda lungo nove piedi. Quando Garner terminò il suo ingaggio e dovette andarsene, Mulligan decise che il quartetto potesse fare a meno del pianoforte: avendo suonato con Chet Baker un paio di volte, sapeva che il trombettista fosse un eccellente esecutore melodico, quindi in grado d’integrarsi con il baritono e di non far rimpiangere la mancanza di un pianoforte. Nel frattempo Gail Madden aveva raccomandato a Carson Smith di coinvolgere Chico Hamilton, il quale venne avvertito subito da Mulligan della modesta situazione tecnica: «Noi proviamo con un piccolo set percussivo. Sai, avremo a disposizione solo un rullante e un hi-hat, un tom tom in piedi e forse un piatto superiore su un supporto. Niente cassa, quindi un set minimo». Per Mulligan fu semplice suonare e soprattutto gestire Chet Baker in quella fase – il trombettista dell’Oklahoma era, all’epoca, poca cosa rispetto alla figura già imponente del baritonista. A conti fatti, però, non ne scaturì mai un rapporto personale profondo, tanto che alla fine Bob Brookmeyer con il trombone a pistoni sostituì l’instabile Baker, mentre, successivamente, Mulligan coinvolse il trombettista Art Farmer. Gerry sosteneva che le differenze tra lui e Chet fossero troppo grandi ed incolpava l’incauto trombettista per la retata dell’anti-droga che portò lo stesso baritonista in prigione costringendolo a sciogliere il quartetto, sebbene le loro registrazioni, accattivianti proprio per la semplicità melodica e strutturale, entusiasmarono i cultori del jazz in stile West Coast, con una buona risposta perfino a livello di mercato. Secondo Mulligan, anche la «reunion» con Baker, avvenuta nel 1974, non fu un’idea vincente, finanche sul piano personale: «Si rivelò un affare così complicato. C’erano troppe persone coinvolte e troppi estranei, fu solo un carrozzone con tante aspettative, dal quale non siamo riusciti a staccarci ed a stabilire qualcosa di veramente creativo. Chet era davvero male in arnese, sempre a causa della droga e, naturalmente, il suo tipico modo di affrontare le difficoltà fu quello di essere scontroso ed esigente, veramente antipatico e scostante con tutti. Quindi, risultò impossibile riuscire esplorare qualcosa d’interessante sul piano musicale.

Durante le crescenti tensioni razziali degli anni Sessanta, Mulligan espresse il suo risentimento per il fatto che i musicisti jazz bianchi non venissero trattati equamente: «C’erano ragazzi neri, nuovi sulla scena che stavano riscuotendo un certo interesse. Credo che, a loro modo, stessero ottenendo un successo commerciale maggiore del mio, perché vendevano molti più dischi ed erano richiesti. Questi giovani ancora con le pezze al culo mi evitavano come la peste senza nemmeno conoscermi. Una volta Dizzy cercò di spiegarmi che secondo lui era dovuto al fatto che io ero stato accettato dai leader e dalle persone importanti delle generazioni precedenti, come Duke Ellington e Count Basie». Mulligan non ebbe mai un buon ricordo di quel periodo: «Gli anni ’60 furono poco attraenti per me. Vidi la totale frammentazione della scena e l’allontanamento fra le persone importanti che avevano fatto la storia del jazz fino a quel momento. Questa situazione andò avanti per tutti gli anni Sessanta e credo fosse ancora peggio negli anni Settanta. Non era sempre molto comodo essere un musicista jazz bianco. Siamo stati, in un certo senso, cancellati dalla storia sia dai critici e dagli scrittori bianchi che dagli scrittori neri». In fondo Mulligan non era un razzista, ma solo un conservatore diffidente e refrattario alle novità che non provenissero da lui: uno dei limiti del baritonista consisteva nel vedere come fumo negli occhi le tendenze del nuovo jazz, da cui fu sistematicamente escluso, come ad esempio il free, anche se si avvertono influenze fusion nei suoi ultimi lavori. D’altra parte Mulligan, pur avendo praticato con numerosi musicisti di differente calibro ed espressione, era solito imporre il proprio determinante contributo, rimanendo per scelta ancorato al suo passato. Tutto ciò lo rendeva inviso, soprattutto poco interessante, per le nuove generazioni di jazzisti afro-americani che lui definiva «giovani con le pezze al culo», ma che in fondo non facevano nei suo confronti – evitandolo – una scelta ad personam, ma di campo, poiché interessati alla New Thing o ad altre forme di jazz più evoluto. Innovatore negli anni Quaranta, Mulligan divenne troppo innamorato della sua idea di orchestrazione coolness, basata su arrangiamenti schematici e partiture poco complesse, melodie rilassanti e ritmi contenuti. Peraltro, in un secondo momento, rifiutò l’etichetta di principale fautore del più tranquillo stile jazzistico West Coast Jazz, sottolineando la propria newyorkesità.

Tutte le donne del baritonista sono state, in qualche maniera, collegate alla sua attività musicale: Mulligan ha convissuto con l’attrice Judy Holliday per circa sette anni, fino alla morte di quest’ultima per cancro al seno nel 1965. L’intera prima parte dell’attività della Concert Band si svolse nel contesto della malattia e della grave depressione di Holliday. Fortunatamente, Norman Granz aiutò il gruppo a finanziare le registrazioni durante il loro primo tour europeo. Per contro, Mulligan non fu particolarmente soddisfatto delle prestazioni del line-up, ma sembrava più preoccupato di tenere la compagine in riga. L’attrice Sandy Dennis, donna schiva e riservata, fu invece la compagna di Mulligan dal 1965 al 1974. Era il periodo in cui il sassofonista manteneva in piedi un sestetto e aveva firmato un buon contratto con la Philips e la Mercury. Nei primi anni Settanta, Gerry incontrò la Contessa Franca Rota Borghini Baldovinetti, donna di carattere, con un atteggiamento diverso dal suo: era molto realista, ottimista e pragmatica, del tipo «se vuoi fare qualcosa, allora, fatti avanti e fallo». Dal canto suo, Mulligan confessò: «Io ero arrivato al punto di non riuscire più ad affrontare i rapporti con gli agenti e i promoters. L’intera scena era diventata qualcosa che non riuscivo a gestire». Franca prese in mano la gestione della vita di Mulligan e la Concert Jazz Band rinacque attraverso un tour negli Stati Uniti e in Europa. Il sodalizio con Dave Brubeck portò ad alcuni lavori sinfonici con la Cincinnati Symphony Orchestra e Zubin Mehta e la New York Philharmonic. Jeru arrangiò per orchestra alcuni dei componimenti come «K-4 Pacific». Per anni, anche durante il soggiorno milanese, le cose procedettero senza attrito alcuno, un gruppo dopo l’altro, tutti basati sull’idea semplice del quartetto ludico finalizzato all’intrattenimento e mai alla sperimentazione: pianoforte, basso, batteria e sax baritono. A livello di composizione, la musica di Mulligan è chiara, originale e priva di esoterismi di sorta. Da autodidatta egli sviluppò l’uso del contrappunto e i suoi arrangiamenti lineari e facilmente intellegibili influenzano a tutt’oggi un certo tipo di scrittura per orchestra. Duke Ellington ne riconobbe la bravura, soprattutto per aver elevato il sassofono baritono a voce solista, facendone uno strumento di prima linea.