Zenga sonda e bonifica il terreno seguendo un differente indicatore di marcia; evita così di dare adito a sterili confronti sparigliando le carte del suo paradigma ispirativo e ricomponendole secondo un visuale più adattiva ad un concetto di jazz contemporaneo.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Ci siamo sempre chiesti se Gato Barbieri sia stato un apolide, musicalmente parlando, o un cosmopolita. Di certo, la sua fama planetaria ne fa una delle figure più apprezzate nell’ambito della cosiddetta «musica di confine» del ‘900, una sorta di world-music ante-litteram e non semplicemente nell’universo jazzistico. Fino a un preciso momento, l’estro musicale di Gato Barbieri, sassofonista dai notevoli talenti, era sempre stato lontano dal mondo del jazz tout-court. Determinante e fatale fu l’incontro romano con Don Cherry, il quale lo instradò alle regole d’ingaggio di una jazz polimorfico e di rottura, quella nuova «forma del jazz in divenire» di matrice Ornettiana, ma che da Coleman attingeva solo i primi rudimenti. Analizzando la discografia di Gato ci rende conto che, in verità, egli non abbia mai suonato jazz, secondo le regole d’ingaggio tradizionali. Lo sa bene chi conosce la sua opera meritoria per antonomasia, ossia la quadrilogia dedicata all’America Latina.
In «Gato! An Evolving Idea» di Germano Zenga emerge tutta la consapevolezza di aver bussato alla porta di un personaggio non facilmente circoscrivibile, ma soprattutto non rivisitabile o ricalcabile in maniera pedissequa.Gato Barbieri è stata una figura anomala, una sorta di outsider accettato dal Ghota afro-americano e divenuto, pur nella sua diversità, cittadino onorario del jazz di stampo nordamericano. Non a caso Germano Zenga tenta una reinvenzione e una dilatazione dello scibile sonoro del sassofonista argentino, innestando all’interno del progetto nuove composizioni, farina del suo sacco, che si adattano perfettamente allo spirito creativo del tributato. La forza di Germano Zenga consiste nell’aver compreso la doppia dinamica presente nell’esperienza del Gato Barbieri negli anni ’60 e ’70, il quale, da Don Cherry, aveva appreso il metodo per incorporare elementi musicali di varia provenienza nelle tematiche free jazz. Nel frattempo, l’argentino era diventato uno specialista nelle improvvisazioni a volo libero, tipiche dell’ultimo Coltrane e dei sui discepoli come Pharoah Sanders. Suonando nella Liberation Music Orchestra di Charlie Haden, egli aveva capito come l’estetica del free-jazz potesse essere sfruttata anche per la configurazione di una sorta di musica terzomondista, che portasse un chiaro messaggio politico antagonista. Spiega Germano Zenga: «La figura di Gato Barbieri mi ha inseguito per decenni nel mio percorso di formazione. Gato è uno dei rari artisti che ha attraversato la musica trasversalmente ed è per questo che non è mai stato considerato dai puristi un sassofonista jazz. Nonostante ciò, quello che mi ha catturato di lui è sempre stato il grande senso lirico e il suo suono riconoscibile. Così, dopo anni trascorsi a studiare i più grandi jazzisti di ogni epoca, ho pensato di approfondire anche il suo mondo, scoprendo di lui, ad esempio, molti punti in comune con John Coltrane, tra cui la spiritualità e la concezione di musica nello spazio. Questo progetto non è un classico tributo, quanto piuttosto lo sviluppo dell’idea musicale che Gato Barbieri ci ha lasciato in eredità».
Tutto ciò per dire che, avvicinarsi a Gato Barbieri, senza averne preso le misure, sarebbe stato come andare a dormire nei pressi di una polveriera con un fuoco acceso: un minimo di distrazione sarebbe bastato a far saltare tutto in aria. Zenga, con molta abilita e mestiere, si guarda bene, innanzitutto, dal calibrare il proprio sassofono sulle timbriche dell’argentino e di riproporre un surrogato di quel suono scorticato, graffiante sofferente ed asimmetrico; per contro, il sassofonista milanese agisce secondo una sua personale forma mentis, sia pure nel rispetto di quel modulo espressivo e del primigenio concepimento. Ne sono una dimostrazione lampante l’iniziale «Merceditas», contenuta nell’album «Bolivia» di Barbieri del 1973, ammorbidita nei contrafforti e «Antonio das Mortes» componimento prelevato dall’album più «americano» del sassofonista argentino, «The Third World». Germano sonda e bonifica il terreno seguendo un differente indicatore di marcia; evita così di dare adito a sterili confronti sparigliando le carte del suo paradigma ispirativo e ricomponendole secondo un visuale più adattiva ad un concetto di jazz contemporaneo. Una conferma giunge da «Hamba Khale» del 1977, associato ad un progetto che Gato sviluppo insieme a Dollar Brand. Soprattutto il costrutto sonoro di Barbieri viene bonificato e liberato da quell’aura ieratica d’impegno politico. Perfino la scelta e la combinazione dei brani, tra cover e inediti, contribuisce a fluidificare tale meccanismo. Zenga, al sax tenore, è supportato da ottimi musicisti Luca Gusella al vibrafono, Danilo Gallo al contrabbasso, Ferdinando Faraò alla batteria e alle percussioni, non ultima la partecipazione in veste di special guest di Enrico Rava. Gli arrangiamenti a maglie larghe rispettano il senso armonico e melodico delle composizioni originali che vengono però rielaborate dalle peculiarità strumentali del quartetto in azione. Il costrutto del sassofonista argentino diventa un mero punto di partenza da cui muoversi in più direzioni, in maniera libera e poco vincolata. Ad esempio, la celeberrima «Lost Tango», a firma Zenga-Faraò, per quanto ispirato al celebre ultimo tango parigino, brilla di luce propria, intarsiato dal delicato soffio di Rava e dal cadenzato vibrafono di Gusella, mentre Zenga coglie l’occasione per involarsi in una dimensione decisamente free-form. «Sombra de Gato», scritta da Zenga, è un ponte tra il mood del suo ispiratore ed un tentativo di cristallizzarne lo stile in un eterno presente, grazie al perfetto sincronismo strumentale e al sostegno poliritmico di Faraò, il quale fa sì che il convoglio non deragli uscendo fuori tema. Brani come «El gato» e «El Pampero», ai quali s’interpone una suadente ballata scritta da Zenga, «Mimi’s Dream», vengono depurati della tipica riottosità del sassofonista argentino e collocati in dimensione più fruibile e attuale. «Tupac Amaru» conserva in parte lo spirito dell’originale, imperniato su un roccioso impianto ritmico-armonico, ma viene diluito progressivamente in liquido di contrasto di differente sostanza strumentale. «La Musica No Se Puede Explicar « è una breve digressione scandita dal vibrafono e dallo speech di Ferdinando Faraò. Nel complesso, «Gato! An Evolving Idea» di Germano Zenga travalica l’operazione di puro devozionismo tributaristico, dimostrando comunque la validità del musicista argentino, quale unicum nella storia del jazz moderno.
