Il trombettista umbro, forte di un già solido background, evita di far sfoggio gratuito esibizionismo accademico a buon mercato concentrandosi sull’essenzialità, mentre le note vengono liberate quasi con parsimonia ed oculatezza lasciando metodicamente spazio ai compagni di viaggio.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nell’immaginario collettivo la tromba è forse lo strumento che maggiormente rappresenta l’estetica del jazz sin dagli albori. Uno strumento non facile da domare che si evoluto nell’arco di cento anni di storia offrendo ai giovani musicisti un più di un paradigma o di un modulo espressivo cui ispirarsi. Riccardo Catria, giovane virgulto umbro originario di Todi, pur non disdegnando il riferimento alle nobili nomenclature del passato, sembra essere orientato verso una dimensione post-moderna che guarda ad artisti come Roy Hargrove e Kenny Wheeler. Un recente incontro mi raccontava di essere molto interessato alla composizione classica, da qui si evince l’idea di una linea di demarcazione «moderata», tesa alla strutturazione a alla confezione di un’intelaiatura morbida, calibrata e avvolgente, quasi sottrattiva rispetto alla complessità armonica delle sue composizioni. Nonostante la giovane età, Catria possiede le stimmate del predestinato ed un medagliere ricco di riconoscimenti che gli consente di aspirare ad una dimensione internazionale, quanto meno europea. Il trombettista tuderte evita di disperdersi nei mille rivoli di un velocismo virtuosistico ed a mantenete le redini strette, il passo cadenzato (non costrittivamente) ed un controllo ragionato del flusso melodico. Ne è una dimostrazione l’opener del suo nuovo album «Acchiappasogni» un’offerta votiva a Kenny Wheeler, dove lo sviluppo tematico, disteso sul ricco sistema accordale fornito dal pianoforte, appare sempre arioso e spaziato, quasi memore inconsapevole, dell’assioma davisiano, ossia l’idea di un jazz che non deve solo stupire, travolgere, ma anche sedurre, dove il flicorno e la tromba, spesso mutizzata, riflettono un’aura gentilizia, soffusa e romantica.

Dalle pieghe del suo più recente lavoro, il primo come band-leader, «Mantra’s Dance» edito dalla Wow Records, emergono sprazzi di Clifford Brown liberati con signorile aplomb, stille di pathos bakeriano e flash davisiani, mentre sullo sfondo compare spesso l’anima inquieta di Roy Hargrove, ma solo nella tipologia narrativa, mentre il timbro ed il fraseggio del giovane Catria sembrano dipanarsi su un territorio esecutivo pienamente autonomo ed autorevole attraverso una liricità spalmata e distesa che, anche nei momenti più sostenuti, non perde ami il senso dell’orientamento melodico. Accompagnato da Lorenzo Francioli al pianoforte e al piano Rhodes, Alessandro Bossi al basso elettrico e Nicola Pitassio alla batteria, la tromba di Catria traccia un percorso inclusivo e circolare in cui i sodali riescono ad agire seguendo un doppio modulo espressivo: da una parte, si muovono in piena libertà senza mai tradire l’assunto basilare del componimento; dall’altra mostrano una sinergica capacita di compensazione, di interscambio e di mutuo soccorso. Spiega Catria: «Mantra’s Dance nasce dall’idea di circolarità, come un mantra che si ripete. La musica si basa sulla ripetizione, che rispecchia le azioni quotidiane che tutti noi compiamo. Queste iterazioni cicliche e il modo in cui le affrontiamo riflettono la persona che siamo e che diventeremo. Il ciclo di vita, morte e rinascita, noto come Samsara, è spesso rappresentato da una ruota, conosciuta come la Ruota dell’Esistenza». È proprio la title-track dell’album, «Mantra’s Dance» che diventa tesi e antitesi, al contempo, del concept sonoro. Sostenuta dal suono vibrante del piano Rhodes e da un retroguardia che non lascia aria ferma, Riccardo si libera in una dimensione metropolitana, con riff ed ostinati quasi funkified, in cui convivono le anime molteplici della suo ventaglio espressivo, mai ridondante ed eccessivo, talvolta crudo e minimale.

Siamo di fronte ad un’opera prima, ciò nonostante il trombettista tuderde, forte di un già solido background, evita di far sfoggio gratuito esibizionismo accademico a buon mercato concentrandosi sull’essenzialità, mentre le note vengono liberate quasi con parsimonia ed oculatezza lasciando metodicamente spazio ai compagni di viaggio. È quanto traspare sa «Samsara», un mid-range in crescendo, intriso di meditazioni esistenziali ed avvolto in un’ambientazione urbana vagamente decadente, brunita e crepuscolare, dove piano e tromba esplorano con discrezione gli anfratti di una città avvolta in una quiete apparente. «Riflessi», uno dei contrassegni salienti del progetto, evidenzia un’architettura progressiva, tridimensionale e tentacolare, che cattura una fitta varietà di mood e cromatismi. Dopo la zampillante escursione pianistica, Catria sembra trasportare il convoglio in una dimensione dapprima onirica e distesa e, successivamente, dissonate, abrasiva e traversale, dimostrando una non comune capacità di controllo sullo strumento, imbeccato dalle impennate della retroguardia ritmica, quasi un novello Booker Little. «Metempsicosi» è la solidificazione tangibile di una jazz contemporaneo che si reincarna attraverso l’anima di un passato sempre vivo ma capace di inglobare universi molteplici e di tradurli in un flusso sonoro formalmente cinematico. «Kind Folk», componimento dedicato a Kenny Wheeler, il maestro ideale, di cui Catria ha incorporato gli insegnamenti – e ne fa tesoro – imbastendo una ballata a schema aperto che oltrepassa i confini della sintassi jazzistica aprendosi ad una differente modularità esecutiva. In «Mr. Roy» sacrificata sull’altare di Roy Hargrove, ritorna la tipica atmosfera metropolitana, ricca di funkiness, in cui la tromba in sordina sembra disegnare cromatismi più attenuati, poetici e riflessivi, quasi in contrasto con il groove distillato dalla sezione ritmica. Sul finale «Rose», una ballata flessuosa incapsulata in una sordina da mille e una notte, con un flusso accordale proto-cameristico, un pathos bakeriano che scava nell’abisso dei sentimenti ed un finale quasi new-aging dai contrafforti scandinavi. «Mantra’s Dance» di Riccardo Catria è un piccolo scrigno di musicalità politonale, ricco di simbolismi sonori ed esistenziali, che rimodella il passato e lo adatta al presente guardando al futuro.

Riccardo Catria