// di Francesco Cataldo Verrina //

D Stiamo assistendo ad una giostra di farneticazioni da parte di Marcello Piras sulle origini del jazz, che commentiamo con spirito pacifico. Piras dice: «il jazz è il prodotto di una sequenza di eventi che si è verificata a partire dalla seconda metà del 1400, che ha portato alla definizione di un linguaggio musicale con certe caratteristiche alla fine dell’Ottocento». Che significa un’affermazione del genere secondo te? Nel 1400 nelle Americhe c’erano presumibilmente solo i nativi che correvano a piedi per le praterie, poiché i cavalli li portarono qualche tempo dopo gli Europei, insieme a tutto il resto?

R. Per certi versi non sono molto sorpreso, oggi vi sono molti tipi di «cancel culture». Certo revisionismo goffo si situa ai curiosi crocevia fra complottismo, razzismo, personalismi che sono al servizio di un neo-colonialismo strisciante e di vecchia fattura, ancorché apparentemente rimpannucciato. Prima si è cercato di «europeizzare» il jazz allo scopo di sminuirvi la predominanza africano-americana, oggi si va oltre e si fa del jazz un ostaggio di revanscismi e razzismi alla rovescia da parte degli stessi africano-americani, che si sarebbero ritagliati un ruolo arrogante e dominante ma inconsistente nella realtà. Colpisce che Piras annulli del tutto il significato di gran parte della Diaspora africana nelle Americhe, rendendola forzatamente avulsa dal contesto statunitense: un’ossessione non nuova da parte sua e propalata più volte. Si tratta di una grave e violenta forma di negazionismo che purtroppo lo stesso Piras e taluni suoi pupilli hanno diffuso nelle ristrette cerchie di un musicologismo (faticherei a usare il termine musicologia) maldestro, culturalmente inconsistente ma ovviamente settario. Ora, pur non appassionandomi l’esegesi di certo «pensiero debole», non credo che Piras intenda situare in ambito pre-colombiano la nascita di un prolungato processo culturale messo involontariamente in moto dall’arrivo dei conquistadores, a partire certamente, come peraltro egli sa bene, dalla tarda seconda metà del Quattrocento. Che in quel periodo vi fossero già materiali da tempo stratificati in diverse tradizioni nel continente africano e nel mondo arabo -ormai ben oltre l’espansione delle prime decadi del VII secolo, dell’invasione della penisola iberica e della Septimania e delle Crociate, con tutti i conseguenti intrecci- è ben credibile, ovviamente. Così come è credibile che i loro sviluppi si siano riversati in vario modo anche fra gli schiavi trasportati nel cosiddetto Nuovo Mondo. A loro volta, che le civiltà pre-colombiane disponessero di un vastissimo patrimonio culturale è cosa ben nota, si trattasse dei Mexica, degli Olmec e di altre civiltà mesoamericane. Delle risorse musicali di tali popolazioni (che facevano uso di numerosi strumenti a fiato e a percussione) si hanno abbondanti ma frammentarie testimonianze, a partire dalle testimonianze di Bernal Díaz del Castillo (che ben descrive anche le strategie dei Mexica nel campo del Sonic Warfare) e del Florentine Codex di Bernardino de Sahagún e dalle prime ricerche di fine Ottocento, da testi informi come quello di George E. Squier fino a più recenti ricerche come quelle di Elsa Ziehm o di Gregory Pereira o gli studi che si estendono alle popolazioni indigene e andine, che si tratti di María Ester Grebe o altri. I testi di Robert Stevenson, di Susan Rawcliffe, di Frederick H. Martens sicuramente descrivono culture di rara complessità e di sapienziale profondità nell’ambito dell’acustica (basti considerare «Complex Acoustics in Pre-Columbian Flute Systems” della Rawcliffe), ma mi pare non necessario in questo caso invocare gli studi in più direzioni di Eloise Quinones Keber, Sarah B. Barber, Gonzalo Sanchez, Mireya Olvera, Ana Maria Alonso, Leonora Saavedra, Olga Nájera-Ramírez e tanti altri. Che tali culture vantassero, attraverso processi di espansione, un ampio bacino di interscambi è indiscutibile, che ciò possa avere avuto un peso specifico sulla posteriore arte africano-americana però è scarsamente plausibile, come ci ricordano autori quali Gerard Béhague (penso a «Music and Black Ethnicity») o progetti di notevole interesse come «Musical Repercussions of 1492: Encounters in Text and Performance», promosso dallo Smithsonian Institute. Che nel barocco musicale coloniale ispano-americano si trovino già tracce e anticipazioni di intrecci e ramificazioni che riverberarono e si svilupparono in area afro-caraibica per lungo tempo, è indiscutibile. Si può anche certamente dibattere sull’assimilazione praticata dagli spagnoli di non poche pratiche musicali azteca (soprattutto nell’ambito degli incentivi alle conversioni), a partire dal pensiero di Pedro de Gante (Pieter van der Moere) già nel 1557 (disponiamo di scarse raccolte, però, come «Cantares Mexicanos» e «Romances de los señores de la Nueva España»). Ma Piras probabilmente ci dice, e a ragione, che il processo centrifugo da cui doveva scaturire parte dell’ampio complesso di tradizioni musicali africano-americane ha luogo inizialmente in un’area ispano-caraibica e poi ispano-afro-caraibica. E perché no? È cosa credo ormai risaputa. Anzi, direi che molto difficilmente si è in grado di capire certi sommovimenti se non si conosce a fondo la storia delle Americhe tutte, sia in ambito pre-colombiano che coloniale. Che però il processo che definiamo piuttosto vagamente jazz (con tutto ciò che comporta il suo passato) si sia coagulato nell’Ottocento mi pare affermazione opinabile, anche se chiaramente funzionale alle conclusioni che Piras trae. Il «coagulo» si forma ben prima, direi circa un secolo prima, nel Settecento americano. Ma Piras, nel suo desiderio para-ideologico-illusorio di tagliare via gli Stati Uniti da determinati intrecci, sorvola.

D Piras prosegue: «Questo linguaggio musicale è stato poi catapultato negli Stati Uniti e qui è stato modificato, adattato e chiamato jazz. Ma siccome questo è rimasto sostanzialmente un corpo estraneo rispetto alle tradizioni musicali degli Stati Uniti, che non hanno prodotto il jazz, bensì hanno prodotto la musica country». Tutto ciò, a mio avviso, significa negare totalmente la presenza e l’importanza degli Africano-Americani nel nuovo mondo?

R. Piras dovrebbe sapere bene che il termine musica «country» non ha alcun significato musicologico o etnomusicologico, essendo un termine fittizio, posticcio, un’etichetta commerciale nata in pieno Novecento, che a partire dagli anni Cinquanta (quando il jazz si era affermato da tempo) ha raccolto in un unico contenitore non solo l’alterazione e la manipolazione operata in certe aree come gli Appalacchi di fonti popolari e folcloriche di origine inglese, scozzese, irlandese (cui poi si aggiunsero varianti dovute a nuove migrazioni interne), ma pure una serie di fonti pre-esistenti come il bluegrass, il blues, una serie di danze popolari testimoniate commercialmente dalla discografia fra la fine degli anni Venti e i primi anni Cinquanta, quando subentra il «country & western», definizione del tutto arbitraria, che a poco a poco fagocita una messe di materiali diversi fra di loro (hillbilly, canti ranchero, rockabilly, boogie, honky tonk, western swing, dance hall, yodel, gospel bianco, blues, Nashville sound, Bakersfield sound, tejano e altre varianti regionali). Peraltro, diversi studi musicologici non più tanto recenti hanno evidenziato quanto sia stato fatto per più di un secolo dai sistemi culturali e politici locali per eliminare una forte presenza culturale africano-americana, da tempo riconosciuta attraverso l’importazione operata dal cosiddetto «bluegrass» (genere a lungo considerato prettamente bianco). Lasciando perdere l’influenza che il jazz ha avuto su non pochi musicisti legati al cosiddetto country, come Hank Williams, i rapporti fra il bluegrass (altra denominazione nata negli anni Cinquanta per definire un linguaggio originariamente acustico) e le varie ramificazioni delle tradizioni musicali africano-americane precedono il jazz vero e proprio ma non lo ignoreranno affatto, proprio riconoscendo in esso una forma diversa e più complessa di elaborazione «extra-territoriale» rispetto al mainstream dell’epoca. Non si tratta di una narrazione yankee-centrica, come vorrebbe fare apparire Piras, né di una recente e violenta «africanizzazione» di rivalsa, un predominio africano-americano che, non meno proditoriamente, si sarebbe sostituito al predominio bianco statunitense e alla sua narrazione nazionalista più che nazionale. Più semplicemente, non esiste la cosiddetta «country music» cui allude semplicisticamente Piras, proprio perché nelle sue intenzioni egli opera un’amputazione assiomatica, elimina le connessioni fra Diaspora africana e culture musicali africano-americane o le riconosce purchè non intralcino la sua alquanto puerile teoria del jazz come corpo alieno ridotto a elemento di arredo urbano in tempi recenti (il che evidenzia pure una certa carenza culturale e pratica sullo stato della scena musicale americana, il suo concertismo, i cambiamenti operati in determinate aree urbane e metropolitane, il continuo decentrarsi al di fuori di New York, che rimane, in effetti, soprattutto una vetrina rappresentativa nella trasformazione turistica e nella gentrificazione della città). Nominare la «country music» è un topos che è naturale aspettarsi da un dilettante, non da un musicologo che oltretutto si vanta di avere in mano, solo a lui assoggettate, chiavi per aprire stanze sconosciute di un labirinto sapienziale. È inconfutabile che la musica bluegrass abbia molti punti in comune con certi ambiti africano-americani come il jazz e suoi derivati e il blues. L’improvvisazione di gruppo, l’alternanza di assoli e una pronuncia ritmica del tutto debitrice nei confronti del cosiddetto swing sono solo alcune delle caratteristiche musicali che accomunano l’esperienza africano-americana e quello che Piras chiama impropriamente «country music». Il banjo, strumento indissolubilmente legato al suono del bluegrass, è di origine africana e africano-americana (Piras sicuramente ricorderà la musica americana al quadrato nel velazqueziano «The Banjo» di Gottschalk). Il canto del bluegrass è stato influenzato dal blues, dai field holler e dall’innodia africano-americana. L’influenza africana, in particolare dell’Africa occidentale, sul bluegrass è forse sorprendente, ma è altrettanto essenziale come l’influenza europea. Robert Cantwell, in «Bluegrass Breakdown: The Making of the Old Southern Sound», fornisce una descrizione già anticipata da Alan Lomax: «Bluegrass echoes blues and ragtime, jazz and swing, and of course old-time mountain and hillbilly music. … These songs, even when they are originally composed by the musicians themselves, remind us strongly of hillbilly music [old-time Appalachian folk music], for bluegrass repertoire, like the hillbilly, is rooted in the Anglo-American folk tradition and has borrowed many songs congenial to that tradition from nineteenth-century middle-class parlor or sentimental songs as well as Negro traditions.» Parlare di country music in modo sbarazzino, come Piras forse ha fatto per motto di spirito, è ingannevole e, in tal caso, del tutto fuori contesto. Reputo assai opinabile pure lasciar supporre che il jazz non sia stato parte fondante della cultura americana del Novecento: Piras non ha che da leggersi la tesi di Leonard Bernstein (un noto complottardo yankee in mano al commercio internazionale) ad Harvard o scorrersi un secolo di letteratura americana o di arte americana in generale o di musica americana accademica e non, aldilà del sospetto implicitamente e vergognosamente razzista che egli scaraventa con fare ridanciano, sottraendo agli africano-americani persino una parte radicalmente significativa della loro identità culturale pur di farli passare per degli appropriatori in cerca di potere culturale, artefici e poi vittime a loro volta della narrativa che li vorrebbe al centro del processo cumulativo e centripeto dal quale il jazz è emerso.

D Personalmente trovo le affermazioni di Piras, quasi infantili: «gli Americani hanno convissuto a disagio con il jazz e oggi praticamente lo hanno del tutto messo da parte.. le statistiche relative alla distribuzione del pubblico danno per il jazz oggi negli Stati Uniti cifre che non sono quelle dell’epoca di Benny Goodman, sono cifre con ‘zero virgola’, simili se non addirittura identiche a quelle della musica classica, cioè il jazz interessa all’0,2, 0,3% della popolazione americana e quindi è stato messo da parte». Mi sembra un volare molto basso?

R Mi pare, piuttosto, che nell’ansia di amputare il jazz dalla cultura americana tout-court, africano-americani inclusi in modo da declassare l’intera esperienza culturale statunitense, egli si contraddica: prima parla di un disagio perenne nella convivenza americana con il jazz, poi riconosce che ai tempi di Benny Goodman la popolarità del jazz era ben altra cosa. Non vi era disagio, dunque, allora? E che senso può avere, mi chiedo, misurare l’entità culturale di un fenomeno solo dalla sua popolarità? La Swing Era ha rappresentato un momento storico ed estetico ben preciso all’interno di una cornice economica e sociale dalla quale essa non può essere disgiunta per praticare l’esercizio di percentuali che non hanno alcun significato nella realtà. Temo che Bruckner, in Europa, abbia a lungo goduto di meno consensi di quanti ne godeva Benny Goodman negli Stati Uniti, ma non vedo come ciò intacchi la sua specificità nel contesto dello sviluppo del linguaggio musicale accademico romantico e post-romantico. Dopo la Swing Era conosciamo bene le fasi attraversate da una musica, dalle radici comunque popolari, che ha sviluppato una coscienza identitaria in rapporto al definirsi del contesto sociale americano, a costo di rinunciare a determinati, caratterizzanti rapporti con l’entertainment ed il suo mercato. Ma le motivazioni sono ancora più complesse e sottili, non possiamo neanche accennarle in questa sede, altrimenti dovremmo soffermarci troppo a lungo. Aggiungo che, nonostante la presunta prevalenza nazionale che Piras attribuisce alla misteriosa «country music» (e che peraltro riguarda solo un segmento del territorio statunitense e del suo pubblico), la musica accademica negli Stati Uniti non è mai stata messa da parte, anzi gode oggi di una eccezionale fioritura, sia nelle sue espressioni di ricerca che in quelle più istituzionali, aldilà di eventuali quote di mercato cui Piras attribuisce un peso incongruo. Se egli misura l’impatto di un pensiero artistico a seconda del consumo, scambiando forme gergali, vernacolari, popolari, di evasione all’interno di un unico calderone dai quali estrarre i numeri del Lotto, non può che lasciarmi perplesso. Il jazz, chiamiamolo per comodità così, e soprattutto a partire dagli anni Sessanta, non si è mai trovato molto a suo agio con valutazioni basate su parametri commerciali, ed in questo vi è sicuramente un’affinità con certi modi accademici: per motivi sui quali non posso dilungarmi in questa conversazione, esso ha attuato una politica identitaria che ha sicuramente coinvolto soprattutto gli africano-americani (che si riconoscono in una serie di varianti afrocentriche assai popolari anche presso pubblici di altra estrazione etnica) ma non solo. Anche l’Europa ha convissuto a disagio con larga parte della musica accademica del Novecento, con le avanguardie storiche, con la loro funzione di richiamo alla coscienza (altro fattore in comune con il jazz): le forme di pensiero complesse corrono notoriamente rischi, hanno d’altronde obiettivi diversi rispetto a linguaggi che, appunto, si definiscono di massa e che intendono agire soprattutto in ambito sociale, nel bene e nel male. Oggi, peraltro, a parte i fenomeni consumistici di massimo grado, viviamo una frammentazione tribale in cui non esistono linguaggi in grado di operare una trasversalità da grandi numeri. Questo vale per il jazz e per molti altri linguaggi. Ma, appunto, non dobbiamo cedere a ragionamenti generici e superficiali, basati non su dati di fatto ma su impressioni del tutto personali e distaccate da ogni plausibile criterio oggettivo.

D Siamo sul piano inclinato del nulla mischiato al niente: «Se noi togliamo il jazz dalla storia degli Stati Uniti e ricolleghiamo direttamente il minstrel show al rock, ci rendiamo conto che c’è piena continuità: il rock conserva molti dei tratti caratteristici del minstrel show. Il jazz sta in mezzo e appunto è un corpo estraneo». Perché dovremmo togliere il jazz, quindi cento anni di storia, anche afro-americana? Il rock come un continuum del minstrel show, quindi dovremmo negare anche l’importanza del R&B? Ho come l’impressione che ci sia una sorta di negazionismo neocolonialista?

R. Che vi sia del neocolonialismo temo maldestramente mutuato da un criterio assai più complesso come quello della «hispanidad» definita da Américo Castro, mi pare curiosamente evidente, forse frutto di permanenze in aree centroamericane, se non erro Piras frequenta il Messico. Egli combatte quella che mi pare una battaglia di retroguardia contro i gringos, con risultati che talvolta mi paiono goffi: succede ai maniaci dei complotti, e in questo, Piras è assai moderno. Tutto lecito, ovviamente, anche se, mia opinione del tutto personale, questa tartariniana inclinazione, che dura da tempo, a eliminare la primogenitura africano-americana e americana dal jazz per indicare un processo esclusivamente o quasi ispano-afro-caraibico alla fine spinga vicende personali a sovrapporsi alla definizione di teorie cui si vuole adattare, anzi restringere il mondo, spesso senza alcun criterio scientifico o sistematico che eluda conclusioni affrettate, assiomi ingenui, incursioni in materie non approfondite abbastanza, quando non veri e propri esercizi di fantasia, cosa che ha fatto più volte notare un musicologo di rango come Carlo Vitali. Ne emerge una rimasticatura di nazionalismo ispano-americano, un simpatico bolivarismo musicale il cui entusiasmo talvolta infantile sfocia in uno smaccato paternalismo neocolonialista con tinte razziste e pretese di superiorità intellettuale. Non è questo il punto: Piras è ovviamente libero di pensarla come vuole e di fare l’uso che vuole di un’intelligenza che ricordo pronta e istintiva, anche a costo di operare ucronie sguinzagliate liberamente. Il suo collegamento, appunto ucronico, fra il minstrelsy e il rock, visto che in mezzo l’intero complesso di elaborazioni linguistiche statunitensi e africano-americane viene da lui munificamente cassato, lascia francamente perplessi. A quale minstrelsy si riferisce? A quello delle origini, con una storia complessa che guarda a una reinvenzione ingenua, perversa e stralunata della commedia dell’arte? A quello successivo, in cui gli africano-americani partecipano adattandosi a una crudele parodia di se stessi? A quello fortemente africano-americano, base del futuro circuito teatrale africano-americano e ponte verso l’art song e la popular song di matrice africano-americana? I meccanismi del black-face, frutto del minstrelsy, hanno attraversato, nel bene e soprattutto nel male, ben più di un secolo (fino agli anni Sessanta del Novecento in Inghilterra): il minstrelsy è stato fenomeno di estrema complessità e che solo in un contesto peculiare come quello americano poteva darsi fra appropriazioni, parodie, letture e riletture, citazioni, estrapolazioni, equivoci, dinamiche razziali, teatro popolare, mercato, intrattenimento, arte. Fenomeno correlato ad una nascente coscienza etnica americana, porta d’ingresso laterale o posteriore attraverso la quale ampli tratti della tradizione africano-americana si sono inseriti a poco a poco nel mainstream americano. Dal minstrelsy e dalla progressiva conquista dei palcoscenici nazionali da parte di professionisti africano-americani dell’entertainment emergono non troppo indirettamente Black Broadway e uno schema di musica sincopata priva d’improvvisazione che ebbe effetti cospicui nella trasformazione delle danze sociali americane e che intrecciò per un periodo la propria genesi e le proprie forze al ragtime, al cakewalk, alle danze che avrebbero definito Irene e Vernon Castle. E’ quella musica sincopata, che nasceva da una molteplicità di compositori e autori africano americani quali James Rosamond Johnson, Will Marion Cook, Eubie Blake, e da interpreti come George Walker e Bert Williams e poi da un fenomeno peculiare come quello di James Reese Europe, ad accogliere l’improvvisazione che giungeva da New Orleans e da un segmento peculiare del marasma evolutivo afro-caraibico, dando vita alla più cospicua e influente fra le tante intersezioni fra culture afrologiche ed eurologiche. Il minstrel nasce quasi un secolo prima del jazz cosiddetto ed è stato un laboratorio, spesso sofferente e umiliante, in cui sono avvenuti macro-processi linguistici basati pressoché esclusivamente su quell’extra-territorialità che si potrebbe banalmente definire ibridazione: nulla in esso è paragonabile o collegabile al rock, di cui evidentemente Piras, nella sua voluta e un po’ bizzosa cecità e sordità, non solo forse sa poco (come evidentemente mostra di conoscere drammaticamente poco della cultura americana d’Ottocento e Novecento e ancora meno di quella attuale) ma spaccia in modo un po’ gratuito e sprezzante, evidenziando a mio parere una lettura vetusta e claudicante, l’ennesimo pastrocchio fra aspirazione marxista e realtà crociana. Le culture americano-statunitensi rappresentano un ramificatissimo puzzle in cui i processi extra-territoriali rispetto alla costruzione del mainstream hanno dato vita e continuano a dare vita, rafforzati dal modello linguistico in costante mutamento che il jazz ha rappresentato per oltre un secolo, ad un numero ormai incalcolabile di gruppi e sottogruppi e di ulteriori varianti al loro interno. Il jazz, o come vogliamo chiamarlo, ha saputo condizionare il percorso culturale di una nazione senza neanche godere, per l’appunto, di un vastissimo consenso o di mezzi imponenti. Eppure il jazz, attraverso una dimensione talvolta esile ma territorialmente capillare, è nei vernacoli americani poli-etnici, è nella prosodia americana di ogni eredità, è -attraverso le diverse forme afrologiche- nel verseggiare del rap e dello hip-hop, discendenti delle dozens e della cinetica mobilità ritmica del be bop. Ha toccato e. e. cummings come Ginsberg, Kerouac o Mailer o Chester Himes o James Baldwin o Toni Morrison o Langston Hughes o Zora Neale Hurston, per non nominare Nathaniel Mackey, Mina Loy, Kenneth Rexroth, o Sonia Sanchez. E’ nell’Art Déco americana, nella musica accademica a partire da Ives o Copland sino ad arrivare a Michael Torke e molto oltre, nelle coreografie di Busby Berkeley o nel teatro musicale di Broadway, è nella cinematografia hollywoodiana da lunga pezza, e tutto questo, in effetti, senza vantare una posizione dominante, il che rende ancora più interessante e significativo il suo tortuoso, accidentato percorso.. Perché, al contrario di quello che afferma Piras, esso fa talmente e inestricabilmente parte dell’immaginario collettivo americano da farsi considerare quasi scontato, parte di automatismi culturali di tale e prolungata consuetudine da manifestare un’apparente indifferenza.

D È possibile che uno tale che si autodefinisce professore risponda in questa maniera? «Quindi gli appassionati di jazz possono dire tutte le opinioni che vogliono, ma non sanno che cos’è che ho in mano, lo sanno quelli che si iscrivono ai miei corsi, io poi faccio questo lavoro per mangiare, quindi non posso regalare gratis le cose che io insegno come professore». Qui siamo veramente tra il minstrel show e lo stand-up comedian, tra il lusco e il brusco, tra il Sangiovese e il Lambrusco?

R Non commento, anche se non nego di trovare divertente questa parlata un po’ da uomo-sandwich, un po’ da scriba che si vanta, fra una strizzatina d’occhio e un dar di gomito, di essere a conoscenza di sacre e proibite cose. Non conoscevo il Piras-Cyrano, in effetti. Ma un tempo, ricordo che il sense of humor non gli mancava.

D non trovi che questa schiatta di intellettuali, messi in cattedra, spesso dalle manovre e dalle aderenze politiche, senta il terreno franargli sotto il piedi. La rete li sta marginalizzando, complice anche una generazione di settantenni-ottantenni, in via di estinzione, cresciuti con il polillismo del luogo comune ed una visione borghese della musica e paternalistica della cultura americana ed afro-americana, in cui il jazz per decenni è stato tenuto in una zona comfort da un eurocentrismo becero e semplificante. I vari Piras hanno prima sbandierato un terzomondismo antagonista, salvo poi pensare alla pagnotta e lanciare storie ed anti-africanismo o di jazz-multirazziale, piuttosto bianco, in un epoca di neo-restaurazione culturale e di salvinismo anti-inmmigratorio?

R. Non conosco intellettuali in questa curiosa branca della musicologia ufficiosa (che, per carità, quasi sempre, come si vede, è più divertente di quella ufficiale). Piuttosto, assisto all’ennesimo esempio della «trahison des clercs», per dirla con Benda. Vedo una narrazione, come si usa dire oggi, falsata, falsante, artata, manipolata (e vi è chi non fa certo meglio di Piras, anzi) che dà sfogo alle nuove pulsioni di intellettuali autodefinitisi di Sinistra e che invece hanno sposato, soprattutto per bassi interessi di bottega, non poche battaglie biecamente conservatrici. Trattasi di un’intellettualità recitata secondo un copione vieto, logoro, figlio di «ismi» mal digeriti politicamente e culturalmente e di una borghesia rimasta piccola, accidiosa e provinciale (intendiamoci, non è che buona parte della musicologia americana se la passi meglio, certi modelli periferici si sono oggi estesi anche altrove in varie forme di social climbing, di corruzione mentale e di disonestà intellettuale spicciola): si è a lungo cercato di far passare il jazz per uno sbalestrato figliastro africano-americano della tradizione musicale europea, si è cercato di accettarlo solo se ideologicamente prono agli «intellos» nostrani ed europei, oggi si reagisce a taluni eccessi del nuovo afrocentrismo delle Americhe semplicemente cercando di privarli della loro identità, sapendo bene di privare dell’identità anche larga parte del detestato secolo americano. Comportamenti che sono frutti di carenze culturale rappezzate da una miopia etica allarmante, incapaci di operare e di analizzare attraverso la ricerca di un equilibrio. Si preferisce piegare la realtà alle proprie teorie, uno strumento di solito amato più dal giornalismo scandalistico che dall’indagine culturale. Pensare di eliminare la cultura americana dell’Ottocento e del Novecento, la complessità dello sviluppo culturale africano-americano nello stesso periodo, il radicamento del jazz e delle sue molteplici relazioni etniche negli strati persino più impercettibili dell’immaginario americano non è solo illusorio, è, e questo non riguarda certamente il solo Piras, intellettualmente disonesto, esplicitamente razzista.