// di Francesco Cataldo Verrina //
Il Sudafrica, il cul-de-sac del continente nero, costituisce un’aberrazione storica, la peggiore forma di colonialismo predatorio e distruttivo nei confronti di chiunque avesse una gradazione di pelle leggermente più scura rispetto a quella di un pallido inglese o olandese. Senza questa forte anomalia storica, fatta di umane sofferenze, non avremmo avuto artisti come Johnny M. Dyani, catalizzatori di una rabbia diretta verso il regime di Pretoria, ma pronta a diventare una voce autorevole a livello mondiale, a rappresentanza di ogni forma di razzismo, ingiustizia socale o sopruso.
«African Bass» è un memento per i carenti di fosforo, dimentichi di quel tempo in cui la musica jazz, nelle sue diramazioni autoctone, multirazziali, etniche e terzomondiste, contendeva e contestava agli afro-americani, cittadini dei una propaggine del mondo Nord-settentrionale, l’uso esclusivo di un linguaggio ritmico, spesso alterato dalla contaminazione bianca. Il guazzabuglio delle avanguardie aveva trascinato in superficie frammenti e detriti di un’Africa rivoltosa e autonomista che contestava ai «cugini neri» delle Ameriendie la primogenitura di taluni generi musicali ritmici, perfino l’origine stessa del free jazz: Johnny Mbizo Dyani lo faceva più di altri, al fine di prendere le disatanze dal quel mondo occidentale euro-americano che, per anni, aveva fatto orecchie da mercante alla violenza genocidiale dei bianchi invasori su nativi sudafricani. Nato povero in Sudafrica, più di quanto un qualunque occidentale povero possa immaginare, orfano, adottao e cresciuto nelle mille difficoltà di un benessere aleaotorio con cui l’Europa abbacinava gli immigrati dalle ex-colonie, Dyani aveva inizito a suonare, percuotere e rumoreggiare usando strumenti rudimentali autocostruiti, intercettando tutto il malcontento nei confronti di quel sistema divisivo che caratterizzava il suo paese d’origine e, in seguito, quello di adozione. Le lezioni di vita e di musica Dyani le aveva prese dalla strada e sulle strade impolverate di Duncan, dove si era destreggiato con numerosi strumenti: tromba, batteria, pianoforte ed infine il contrabbasso che divenne il suo strumento d’elezione, infulenzato dalla kwela, una forma di jazz autoctono scaturito dal marabi, tipica musica del luogo suonata fin dagli anni Venti nelle township sudafricane, e dallo swing afro-americano diffuso dalla radio.
Il Sudafrica, complici le ciniche democrazie europee e la plutocrazia USA, era l’unico paese africano governato, perfino in epoca post-coloniale, dai bianchi invasori e sfruttatori che, per decenni, avevano ridotto le popolazioni autoctone ad una massa priva di diritti (ammesso che di diritti si possa parlare) e segregata, a cui non era consentito avere alcun contatto con i bianchi, se non per servirli. È proprio a causa del Sudafrica che l’opinione pubblica mondiale iniziò a confrontarsi con l’odiosa espressione apartheid. Così, quando Dyani capì che per le autorità sudafricane fosse reato il fatto che un nero potesse suonare insieme a un bianco, la sua riottosità si acuì ancora di più. L’aver trasgredito questa ingusta imposizione governativa non gli consentì più di tornare in patria, trovandosi a barcamenarsi altrove da esule, tra mille difficolta e sempre sul filo del rasoio di un’esistenza precaria. Giovanissimo Dyani era entrato nei Blue Notes di Chris McGregor, pianista bianco il quale aveva sfidato le leggi razziali del suo paese con un sestetto multietnico che miscelava musica africana e jazz statunitense. Costretto a rifugiarsi in Europa, il temerario manipolo di musicisti sudafricani, detiti ad una forma meticcia e libertaria di sperimentazione sonora, avrebbe contribuito a risvegliare la stagnante e sonnolenta scena del jazz britannico. Dopo lo scioglimento dei Blue Notes, però, ciascuno di essi andò per la propria strada, e quella di Dyani non fu sicuramente in discesa.
L’inizio della sua carriera post-Blue Notes è segnato da una complicata avventura-disavventura argentina del 1966, quale membro del quartetto di Steve Lacy ed Enrico Rava. Nel 1971 Dyani diede vita ad un suo gruppo, gli Earthquake Power, ed in seguito agli Xaba con il connazionale Mongezi Feza e il percussionista turco Okay Temiz esibendosi in tutta Europa dopo essersi trasferito in Danimarca e, successivamente, in Svesia dove registrò molti album a suo nome con Dollar Brand (Abdullah Ibrahim), Don Cherry, Steve Lacy, David Murray, Joseph Jarman, Clifford Jarvis, Don Moye, Han Bennink, Brotherhood of Breath, Mal Waldron e Pierre Dørge. Purtroppo, nel 1986, Dyani morì anzitempo, a soli quarantuno anni, dopo un’esibizione berlinese. «African Bass» è un album che nasce da una situazione fortuita e paradossale, ma soprattutto dall’intuito di Sergio Veschi e Alberto Alberti che, nonostante l’imprevisto, riuscirono a capovolgere la situazione, dando vita ad un capolavoro di afro-free-jazz, fatto di rabbia, disperazione e denuncia, dove due soli strumenti ritmici, contrabbasso (pianoforte in alternativa) e batteria, con l’ausilio delle voci, riescono a creare un quadro sonoro dalle molteplici sfumature timbriche e cromatiche, un piccolo gioiello di progressione multietnica e politematica a volo libero. Giunti allo studio Barigozzi per accompagnare Walter Davis Jr., Johnny M.Dyani e Clifford Jarvis si ritrovarono a doversi reinventare una situazione completamente nuova per non vanificare il set e l’impegno preso. Come si dice: non tutti i mali vengono per nuocere. Dopo alcune prove, si capì subito che quel trio non poteva funzionare. Davis Jr. desistette dall’idea del trio e registrò una serie di take in piano solo, mentre Dyani e Jarvis si rimboccarono le maniche e diedero vita a un disco che, ex-post, potremmo definire epocale, nonostante in quello scorcio di fine anni Settanta ebbe un distribuzione limitata e non venne mai ristampato neppure con l’avvento del CD. Oggi, la nuova Red Records di Marco Pennisi gli rende giustizia ripubblicandolo in una splendida confezione gatefold su vinile di pregio da 180 grammi, nonché in copie limitate e numerate manualmente una per una.
Addentrandoci tra i solchi del vinile, scopriamo tutta la forza epica di una musica di «protesta» ed apparentemente geolocalizzata, ma che non ha perso un microgrammo del suo portato storico, ancora attualissimo ed applicabile a molte odierne situazioni, dove la discriminazione e la sopraffazione rendono l’umanità ancora capace di vergognose nefandezze: guerre, pulizia etnica, razzismo, genocidi e sfruttamento dei paesi del terzo mondo. L’album si apre con «Afrikan Anthem – Zulu» tradotto e arrangiato da Dyani. Trattandosi di un inno, senza il trionfalistico apporto dei fiati, diventa più simile a una danza sciamanica purificatrice e propedeutica ad un evento importante, scandita dal walkng di un basso inarrestabile come un torrente in piena, mentre all’orizzonte sembrano addensarsi terribili presagi. C’è un clima di attesa come un esercito silente che si prepara allo scontro finale, fino quando il flusso ritmico non viene tagliato da uno un canto lancinante e spasmodico, mentre, al cambio di mood, il groove diventa marciante e pugnace. È una versione dissonante dell’inno ufficiale sudafricano ma, dematerializzato e ridotto all’osso dalla lunga improvvisazione di Dyani, diventa un segnale di guerra e di protesta. Nel successivo «African Blues» Dyani passa al pianoforte dimenandosi attraverso un compatto ostinato dissonante ed abrasivo, imperniato sulle tonalità medio-alte e basato sui contrasti armonici, a cui il kit percussivo di Jarvis risponde in piena consapevolezza. Il ripetitivo crescendo poliritmico diventa un invito ad rito tribale collettivo che lega e fagocita altre due tracce: «Ithi-Gqi» e «Lonely Flowers». La B-Side si apre con «South African», altro componimento tradizionale, ricontestualizzato da Dyani, nel quale anche Jarvis dimostra di conoscere bene le dinamiche di quel canto fatto di fonemi taglienti e singhiozzi tribali, quasi imitativi dei suoni della natura circostante. Le due voci si fondono armonicamente in una giungla fitta di vibrazioni e variazioni vocali quasi onomatopeiche. «The Robin Irland Struff» si sostanzia come una progressione estatica, un trance sonora costruita su un’estesa e labirintica progressione ritmica anarcoide, senza regole o arbitrio, la quale sembra esternare tensione, voglia di riscatto e desiderio di lotta e di libertà. Registrato il 14 novembre del 1979 e pubblicato per la prima volta nel 1980, «African Bass» è un prototipo brevettato di free-jazz a larghe falde, terzomondista, ma perfettamente in linea con lo zeitgeist e l’humus generazionale anti-sistema di un momento storico in cui arte, impegno civile e politico sembravano essere sulla medesima linea d’urto. Un concept di tal fatta, in relazione all’odierna vacuità mediatica dell’era del Jazz 4.0, assume una notevole rilevanza tematica e culturale, oltre che sonora, travalicando la caducità del tempo, degli uomini e delle mode.