CHA-WA

// di Francesco Cataldo Verrina //

Appena ho visto il programma completo di Umbria Jazz, all’Arena Santa Giuliana, ho avuto un senso di smarrimento e di opprimente delusione. Ho chiamato alcuni amici e colleghi, ci siamo confrontati: avevano provato anch’essi la medesima sensazione. Non che gli artisti in cartellone non siano degni di rispetto, ma non sono rappresentativi, ad accezione di qualcuno, di una manifestazione, tra le più quotate a livello mondiale – soprattutto per fama pregressa – che continua ad usare nel logo la parola «jazz», diventata negli ultimi anni la puttana di tutti. Umbria Jazz è solo un ossimoro culturale, un’agenzia di spettacolo di arte varia per conto terzi , tra guitti e saltimbanchi, con il sostegno delle istituzioni locali e nazionali.

Ci siamo più volte interrogati se tutto ciò dipenda da una totale superficialità organizzativa o gestionale, ma soprattutto dal voler farsi beffe di un glorioso passato: vedo, per esempio, Alberto Alberti che si rivolta nella tomba. Non è neppure tutto questo: oggi sarebbe facile, ci sono le agenzie, c’è il web, basterebbe farsi un giro e capire da che parte soffia il vento del jazz. Franco Battiato avrebbe tuonato: «Mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura…e non è colpa mia se esistono spettacoli con fumi e raggi laser…se le pedane sono piene di scemi che si muovono». Analizzando le parole del musicista siciliano, mi vengono alla mente le scene viste durante il concerto di Mika, lo scorso anno, all’Arena Santa Giuliana. Taluni malanni sono comuni a molte manifestazioni diventate, nelle ultime decadi, pseudo-jazzistiche, ma ritengo che su Umbria Jazz ci sia un accanimento terapeutico da parte di coloro che dovrebbero averne cura. Ne scaturisce una forma conclamata di autolesionismo che allontana sempre di più il «popolo del jazz» da questo finto happening, piuttosto trash, tra il kitcsh ed ketchup, il quale insegue sine die la volgarità dei numeri e l’opulenza delle cifre: tutto ciò trasforma il concetto di arte come espressione in una piccola scuola di ragioneria circense, dove il sold-out diventa il fine unico da perseguire. Così, avrebbe detto Renato Zero: «Il carrozzone va avanti da sé, con le regine, i suoi fanti e i suoi re».

Leonard Albert Kravitz, detto Lenny, con il suo frullato di neopsichedelia vagamente poppish, incanterà i millennials e quelli con la playlist sul telefonino, ma non suonerà una riga di jazz, non ne sarebbe capace, soprattutto non gli converrebbe rischiare. I Cha Wa, divertenti e caricaturali, un meticciato di subculture politematiche tra funk, bongo e slang, R&B da paninoteca e tricche e ballacche di nostalgismo jazz sudista francofono e neo-tribale. A vederli sembrano i Village People degli anni 2000, anche se credono di essere la San Ra Arkestra. Cha Wa: chissà chi lo sa? Come va, va! Raye, quelli della curia dicono che abbia scritto pezzi per John Legend, Ellie Goulding, Khalid, David Guetta, Diplo e Beyoncé. Davvero difficile scorgere un jazzista fra costoro. Insomma Raye: se il raggio non dovesse accendersi, inizierà a ragliare. Potter / Mehldau / Patitucci / Blake: onore e gloria a questi quattro capitani coraggiosi del jazz mondiale, gettati nell’arena e pronti a sfidare tante creature aliene. Gil Evans Remembered, per quanto sia una lodevole iniziativa, è solo una forma di nostalgismo da cover band. Tower Of Power rappresenta il residuo di una storica funk band, (li passavo anche in discoteca quando facevo il DJ), ho trovato undici dei loro vinili nella mia discoteca personale. Da studioso della cultura afro-americana, ne sono felice, ma non capisco quali entusiasmi possano accendere nell’era di Internet al quadrato. E poi, mi viene in mente James Brown, che casca a strufolo o a ciauscolo su Umbria Jazz, il quale urlava: «It’s Too Funky in Here».

A quanto pare, qualcuno ha scoperto il funk in età senile e ci avverte: Sonicwonder è «la più dura e funky band di Hiromi, la cui genesi risale al 2016». In realtà, siamo più vicini al caos armonico di un’intelligenza artificiosa, basata su un virtuosismo fracassone e surrogato da una finta black-music avvolta nell’alluminio anodizzato, frutto di un pianismo algido e falso come la banconota di quel film di Totò. A proposito, per assonanza, non dimentichiamo i Toto che non fanno ridere: gente seria, strumentisti precisi e inarrivabili per tecnica in studio, ma il nucleo originario della band è stato decimato dal fato avverso: c’è ben poco di quell’armonia originale. I Toto, oggigiorno, sono quasi una cover band di sé stessi, come i Nomadi in Italia. C’è poi, l’inquieta Veronica Swift, la cantante del tutto e del troppo, del più e del meno, del pare jazz ma sembra altro, del canta tu che canto anch’io: blues, jazz, soul, rock e matazz, pop e pupazz. Mi viene in mente il papa, quando dopo la sua elezione al soglio pontificio, disse: «Siete andati a prendere il papa alla fine del mondo». Bisognava andare in capo la mondo, in Islanda, per trovare Laufey, definita dalla confraternita degli officianti come «una delle più grandi star del jazz dell’era dello streaming». Non sappiamo se tutto ciò potrà fare ammenda e ripagare i delusi dell’era del vinile. Qualcuno potrebbe dire: ma voi siete vecchi e nostalgici! Infatti sul main stage del Santa Giuliana sfileranno una serie di giovanissimi di primo pelo: Jesús Dionisio Valdés, meglio conosciuto come Chucho Valdés, 83 anni; Djavan Caetano Viana, 75 anni, Roberto Fonseca e la Pacific Mambo Orchestra per la solita fiesta latina a base afro-cuban-tropical jazz da cartolina turistica. Non mancherà neppure un po’ d’Africa in giardino, tra l’oleandro e il baobab, con Fatoumata Diawara, che in comune con il jazz ha solo l’origine africana. E ciliegina sulla torta, Nile «Le Freak C’est Chic» Rodgers: finalmente, la disco-funk equiparata al jazz, quale cugina delle pentatoniche, del quattro quanti alla Lionel Hampton e figlia degenere del blues ritmico. Nile almeno sa che cosa sia il groove e che si scrive funk e non funky, a meno che il termine non venga usato come aggettivo (ossia funky music) e non indicato come genere, (in tal caso si scrive funk). A conti fatti, se Umbria è Jazz, Jazz è un’aberrazione cromosomica o, comunque, una forma transgenica di anocoluto, ossia un costrutto campato in aria.