…quasi un’esegesi che porta la cantante milanese ad allontanarsi dal melodismo-sentimentale simil-poppish ed a trovare il grimaldello di un’espressione canora sincopata e swingin’ che rende giustizia al repertorio della Mitchell ricontestualizzata in un’ambientazione jazzistica.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Va detto subito che questo disco non è un tributo manieristico o coveristico a Joni Mitchell, ma un’attenta rilettura in chiave jazz dell’opera della cantautrice canadese, che non può essere ridotta al mero ruolo di interprete folk-rock. La Mitchell fu sdoganata presso il pubblico del jazz dall’album-tributo a Charles Mingus, un’operazione, in illo tempore, non acclamata a pieni voti da tutta la critica mondiale, ma che in realtà metteva in luce, sia pure sommessamente, la componente jazz in quel suo canto frastagliato, consapevole dell’arte delle pause e dei silenzi, che si attagliava perfettamente ad una dimensione più ritmica e meno «rurale» di un genere engagé, il quale sovente affidava la narrazione più al testo o al messaggio in esso contenuto che non al sistema accordale. Martha J. dice: «Ci siamo immaginati come sarebbero venuti fuori i brani se Joni li avesse suonati con un quartetto jazz».
In «Amelia», concept guidato dal suo compagno di vita e d’arte Francesco Chebat (piano) con Giulio Corini (c/basso) e Maxx Furian (batteria), traspare immediatamente una ricerca attenta dello scibile sonoro della «Signora del Canyon», quasi un’esegesi che porta la cantante milanese ad allontanarsi dal melodismo-sentimentale simil-poppish ed a trovare il grimaldello di un’espressione canora sincopata e swingin’ che rende giustizia al repertorio della Mitchell ricontestualizzata in un’ambientazione jazzistica. Un vero quadro d’autore realizzato in occasione degli ottant’anni di questa singolare artista che ha influenzato generazioni di cantanti e musicisti. «La prima cosa che ti colpisce di lei è la sua vena di folksinger, il suo modo così etereo di cantare.» – commenta Martha J. – «Andando avanti con gli ascolti, seguendo il suo percorso musicale, il suo messaggio è diventato sempre più complesso e trasversale rispetto a vari generi. Ha cominciato a chiamare musicisti di area jazzistica: Jaco Pastorius, Herbie Hancock, Peter Erskine, Wayne Shorter. Il suo linguaggio si è un po’ spostato rispetto a quello che era semplicemente l’ambito folk. Era questo che a noi interessava esplorare, e anche i pezzi che sono tratti dai suoi primi album, nell’arrangiarli ci siamo immaginati come sarebbero venuti fuori se lei li avesse suonati con i musicisti con cui ha collaborato negli anni successivi». Il repertorio scelto dalla cantante milanese spazia all’interno della discografia di Joni Mitchell: da «The Dawntreader», dall’album «Song To A Seagull» del 1968, fino ad «A Chair in the Sky» dall’album «Mingus» del 1979. Il quartetto riesce ad enucleare il centro vitale delle canzoni della folk-singer canadese, rimodellandole attraverso un costrutto concettuale coerente che utilizza le regole d’ingaggio del jazz, ma soprattutto sviluppa un habitat congeniale alle capacità vocali di Martha J., il cui nome anagrafico è Stefania Martinelli, la quale risulta abilissima a installare un hub di collegamento tra due moduli espressivi differenti, il jazz ed folk-rock, evitando accuratamente di diventare l’immagine speculare, ma diafana e sbiadita della Mitchell.
Le parole della protagonista, in proposito, sono piuttosto eloquenti: «Abbiamo cercato di catturare la sostanza più terrena di Joni Mitchell, riflettendo questa ispirazione nei nostri arrangiamenti jazz contemporanei. Noi siamo sempre molto rispettosi nel fare le cover, non le stravolgiamo. Però neanche ci interessa fare la cover band. Ci interessa prendere il materiale musicale, melodia ed armonia, e cercare di farne una nostra versione, dare una nostra visione. Ci sono alcune canzoni che sono talmente iconiche, così conosciute nella loro versione originale, sulle quali è molto difficile mettere mano. Anche nell’album precedente, dedicato ai Beatles, non trovi Yesterday, Let it be, canzoni che se le fai diverse le rovini, perché sono talmente belle, talmente riuscite, che non riesci a dire qualcosa di più interessante. Scegliendo brani minori, allora è più facile dire la tua, offrire una prospettiva nuova e appassionante». Sono molte le similitudini fra le due interpreti, perfino una lieve somiglianza fisica; del resto la stessa Joni Mitchell usa un nome d’arte, poiché nata Roberta Joan Anderson, cosi come «Amelia» è anche la nonna paterna di Martha, a suo dire: «Pure lei era una donna con le palle». Ciononostante, il clima delle canzoni della cantautrice canadese viene trasferito idealmente da Fort Macleud a Milano, dove l’originalità di Martha J. emerge in tutta la sua adamantina nitidezza e in cui le atmosfere jazz talvolta s’infittiscono, per esempio nell’inziale «Moon At Window», altre volte appaiono più sfumate e bluesy come in «Sweet Sucker Dance. Due mondi che s’incontrano, si compenetrano e compensano, in cui il modus agendi ma, in special modo, la voce di Martha apporta un valore aggiunto al sistema melodico-armonico della Mitchell, poiché non condizionata dall’appartenenza ad un genere fortemente autoctono. Basta ascoltare le dinamiche di brani come «Barangrill» o «The Hissing of Summer Lawns», segnate da contrafforti decisamente soulful. Nello specifico le undici tracce contenute in «Amelia» rinascono per partenogenesi, dopo essersi rigenerate in un nuovo liquido amniotico creativo. Operazione non facile o scontata ma del tutto evidente in «Free Man Paris», calata in un mood vicino al new cool inglese degli anni Ottanta, per non parlare di «Black Crow» perfetta per un divagazione swing dal gusto retrò. La title-track, «Amelia», è la canzone che la canadese dedicò ad Amelia Earhart, icona femminista, la prima donna che tentò la trasvolata in solitaria dell’Oceano Pacifico e che scomparve assieme al suo aereo durante l’impresa. In considerazione del drammatico epilogo, Martha J. la restituisce al mondo degli uomini con una potente e sofferta liricità.
La singer milanese ci tiene a precisare che non trattasi di un’impresa facile e a buon mercato: «È stato un procedimento lungo, perché i brani sono tanti, tutti bellissimi. Quando sono partita con questo progetto, ho riascoltato con attenzione tutta la discografia. Ho cercato di concentrarmi su quelli che potessero essere un po’ elaborati, che avessero una struttura jazz». Parte del merito va ai tre musicisti che l’accompagnano e che riescono a creare costantemente quel tipico mood jazzistico capace di dare nuova linfa vitale a qualsiasi composizione sonora e canora: basta ascoltare fino ad esaurimento scorte canzoni come «The Downtrader», «A Chair In The Sky», «Cold Stee Blue And Sweet Fire» e «The Same Situation» rivestite di velluto e seta dalla voce di Martha, rinverdite e rinsanguate di blues e soul, in cui i testi, talvolta piuttosto fitti di parole e descrittivi della Mitchell, sembrano amalgamarsi sincronicamente con il costrutto ritmico-armonico. Nulla di meglio della parole della protagonista per mettere un serto d’alloro su un album davvero fuori dal comune: «La scelta dei brani è stata guidata dalla volontà di reinterpretare quelli meno frequentemente affrontati, offrendo una prospettiva nuova e appassionante». Così è stato e così è, se vi pare!