Ed è proprio quella «libertà espressiva», di cui lo stesso Bruno parla, a diventare il vero motore mobile del progetto, il carburante ideale per una creatività dilatata che guarda verso i quattro punti cardinali della musica, ma che a tratti tradisce anche l’amore per il jazz afro-americano nelle sue innumerevoli declinazioni.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel corso degli anni, personaggi come Francesco Bruno sono riusciti a dare un ruolo primario alla chitarra jazz, la cui storia in tale ambito è alquanto accidentata: da strumento di contorno in epoca bebop, spesso associata al un organo Hammond nei dischi soul-jazz, riusci ad assurgere ad un ruolo di primo con l’avvento della fusion e l’affermarsi dello smooth jazz. Oggi, nell’ambito del jazz contemporaneo, la chitarra gioca un ruolo primario: un guitar-trio se la gioca quasi sempre ad armi pari con il più tradizionale piano-trio, merito di musicisti lungimiranti come Bruno, che hanno saputo svecchiare lo strumento collocandolo in una dimensione di assoluta attualità, tanto che le sue parole diventano simili ad una mission aziendale:«Il linguaggio del jazz non conosce confini geografici e temporali, è il più forte dei venti che conosco, capace con la sua forza di attraversare le culture di tutto il mondo, spazzando via ogni dogma o pregiudizio, rimanendo vivo e rinnovandosi da sempre proprio grazie a questa libertà espressiva che amo e che ha sempre ispirato i miei progetti.»
Prevista per il 15 settembre 2023, l’uscita di «Zàkynthos», il nuovo album di Francesco Bruno per Alfa Music, in cui il chitarrista si avvale del supporto di Andrea Colella al contrabbasso e Marco Rovinelli alla batteria, che rispondono sinergicamente ed in maniera costruttiva a tutte le suggestioni offerte dalle composizioni del band-leder. Ed è proprio quella «libertà espressiva», di cui lo stesso Bruno parla, a diventare il vero motore mobile del progetto, il carburante ideale per una creatività dilatata che guarda verso i quattro punti cardinali della musica, ma che a tratti tradisce anche l’amore per il jazz afro-americano nelle sue innumerevoli declinazioni. Otto composizioni originali che intercettano le suggestioni molteplici provenienti del bacino del mediterraneo e dal Sud del mondo: delle atmosfere latino-americane, frugando in ogni angolo recondito del Pianeta Terra con uno orecchio teso ed attento a cogliere le infinite contaminazioni che rendono vitale e mai pago il linguaggio del jazz moderno. L’ispirazione parte proprio dai miti e dai racconti immaginari portati dai venti del mondo: che soffiano e si raccolgono iconicamente sull’isola greca di Zàkynthos (Zante), l’isola di Ugo Foscolo, nel cuore del Mare Nostrum, culla di popoli, di civiltà e di antiche tradizioni, proprio dove nelle prime mappe geografiche campeggiava la rosa dei venti. Dice Francesco Bruno: «Vivo da molti anni in un posto di mare, credo sia un dono ricevuto quello di poter sedere a volte su un tronco portato dal mare sulla spiaggia ed ascoltare in solitudine il suono del vento. Quante storie il vento sembra raccontare con il suo cammino, attraversando continenti a volte con violenza e distruzione, a volte con dolcezza, regalando un abbraccio in una calda notte d’estate. In fondo il vento è anche il racconto di noi tutti esseri umani capitati in tempi e luoghi diversi in questo viaggio misterioso che è la vita. Credo dovremmo tutti provare ad ascoltare le storie portate dal vento, con tenerezza ed empatia, cercando di capire quanta bellezza potremmo riceverne in cambio. Io ho provato con la mia musica a raccontarne alcune, immaginando come ho fatto anche nei miei lavori precedenti, sentimenti, emozioni non solo della mia terra ma anche di altre più lontane.
L’album si dipana come un viaggio, come una meditazione sonora errante che mette insieme variegate atmosfere con una ricchezza di sfumature cromatiche e cambi di mood, sia pure in una situazione di minimalismo strumentale, che rendono l’itinerario sempre attrattivo ed intrigante, dalla prima all’ultima nota. La chitarra di Bruno offre uno story telling intrigante, basato su un complesso telaio armonico a maglie larghe nel quale i due sodali s’inseriscono perfettamente divenendo a volte un tutt’uno con flusso tematico sprigionato dalla chitarra del band-leader. Tutti i componimenti sono impregnati di una forte eloquenza melodica, fatta di momenti talvolta onirici e sospesi: ad esempio, la title-track, «Zàkynthos», pensata come una composizione per chitarra classica per poi eveolversi in una parte armonica strutturata, oppure «Africo, altro nome del libeccio, che si sostanzia attraverso una ballata dalle tinte delicate e notturne; altri momenti risultano più solari, terreni e narrativi, quali «Bayamo», il vento cubano, brano ispirato all’isola antilliana o l’opener «Jaloque», ossia lo scirocco, componimento che diventa una cuspide tra Mediterraneo, Africa e Caraibi, fino a raggiungere uno status di intenso pathos come in «Zonda», termine che si riferisce al vento argentino. Le parole di Bruno sono ancora piuttosto esaustive: «Ho scelto per raccontare la mia musica la dimensione minimale del trio, suonando insieme al batterista Marco Rovinelli e il contrabbassista Andrea Colella, due musicisti con i quali ho l’onore di collaborare da tempo che hanno impreziosito questo lavoro con la loro grande sensibilità. Il linguaggio del jazz non conosce confini geografici e temporali, è il più forte dei venti che conosco, capace con la sua forza di attraversare le culture di tutto il mondo, spazzando via ogni dogma o pregiudizio, rimanendo vivo e rinnovandosi da sempre proprio grazie a questa libertà espressiva che amo profondamente e che ha sempre ispirato i miei progetti».
«Zàkynthos», il nuovo album di Francesco Bruno è soprattutto un mèlange di emozioni multicromatiche dispensate attraverso le corde di una chitarra che a volte sembra cantare, altre raccontare e meditare sulla musica dei mondi possibili senza mai perdere il filo del discorso con la contemporaneità, pure tenendo bene in vista lo specchietto retrovisore della tradizione.