«PFAS OFF» è un intelligente destrutturazioni dei luoghi comuni di mezzo secolo di musica ed una ricostruzione intelligente in un contenitore adatto ad una contemporaneità estrema e subacquea, pronta ad emergere come una neverland nascosta, ma che non scende a patti con il mercato o con le lusinghe delle playlist radiofoniche.
// di Francesco Cataldo Verrina //
I Doortri appartengono alla categoria non comune della genialità sotterranea, quel sottosuolo creativo che da sempre da il meglio nell’indifferenza di molte etichette discografiche imbalsamate nel sarcofago del deja-vu. Un vero peccato che tanta di questa musica rimanga sommersa ed underground. Il disco di Tiziano Pellizzari, contralto, tenore, clarinetto basso, elettroniche varie, Geoffrey Copplestone noise e radio vocals e Giampaolo Mattiello percussioni di ogni tipo, non è uno di quei lavori consigliabile ai deboli di stomaco, ai melomani-canzonettari, ai fischiettatori di playlist sotto la doccia o ai cercatori di melassa spalmabile sulle orecchie. Parlimo di uno di quei prodotti non facili al primo impatto, ma che danno all’ascoltatore più attento la consapevolezza di come si possa distruggere la banalità della musica contemporanea e riportarla in auge sotto una luce diversa e con un maggior numero di ottani a corredo. In «PFAS OFF» non c’è sentore o il fetore di piattaforma sonora liofilizzata, per contro c’è la rabbia vera di una generazione, più incognita di una banale X, la quale non esiste nei percorsi ufficiali della prevedibilità mediatica. Un lavoro del genere, registrato quasi in presa diretta al Maelstrom Record Studio di Lozzo Atestino (PD), possiede tutta quell’aura di precarietà, (che non è un demunutio capitis), tipica dei primi dischi free jazz, le ruvide sonorità degli album punk, la rabbia di certi metallari di provincia, dei rappers più radicali, degli avanguardisti europei degli anni Settanta, dell’elettronica giapponese e del tipico minimalismo sperimentale. «PFAS OFF» è un intelligente destrutturazioni dei luoghi comuni di mezzo secolo di musica ed una ricostruzione intelligente in un contenitore adatto ad una contemporaneità estrema e subacquea, pronta ad emergere come un’Atlandide nascosta, ma che non scende a patti con il mercato o con le lusinghe delle playlist radiofoniche.
«Creesa» è una silurata di energia immersa in una bolgia di effetti speciali, dove il sax di Tiziano Pellizzari tocca delle punte altissime di narrazione, attraverso un suono abrasivo che ricorda a tratti Albert Ayler, il John Coltrane più estremo, ma anche lo Shorter più onirico. «Murderredrum» sviluppa una trascinate atmosfera alla Ian Dury, tra rap e post bop ad effetto punk. «Ditch For Mask», possiede un’energia quasi teatrale, mentre il clarinetto basso sembra evocare il fantasma di Eric Dolphy inseguito da una una ridda di percussioni post-tecnologiche. «Pfas Off» ha le stimmate di un ottimo free jazz ornettiano che guarda al futuro con un occhio e l’altro nello specchietto retrovisore della tradizione. Haiku» è un’orda metropolitana che si abbatte sul mondo, magnificata da un uno speech cadenzato e scandito da un flessuoso groove, il quale unisce jazz e funk in un morganatico ispirato dalla luna. «MDBF» appare come una batracomiomachia di suoni urbani dove il sax s’insinua negli angiporti di una città in fiamme. «Maak E. Beefheart» è un rap metallurgico che ricorda un rito sacrificale in un mondo fantascientifico, scandito su un breakbeat ipnotico, mentre sagome, automi e zombies si stagliano in lontananza.
«Deviazione», tenta una smaterializzazione del costrutto sonoro attraverso il lamento abrasivo del sax che sembra suonare un pentagramma scritto sulla carta vetrata, mentre l’effettistica sembrerebbe condurre l’ascoltatore verso un universo parallelo, fino al crescendo finale che assume quasi le sembianze di una rinascita o di un’emersione dalle viscere della terra. «One Hundred Live And Die», è una perfetta combine tra parlato, groove e melodia, che per quanto incastonata in un flusso percussivo sostenuto e senza aria ferma, riesce a ricavarsi momenti piuttosto intellegibili: il suono del sax è irrefrenabile e fortemente attrattivo. «J.Alfared» si materializza come una sorta di free jazz post nucleare, magnificato da un ottimo sax che si approccia ai luoghi e ai personaggi di un passato ibernato in costrutto armonico sibillino e deformato, ma da ricollocare in uno scenario filmico proiettato verso il futuro. «No Logo(s)» è un’escursione dissonante e ayleriana, su un terreno accidentato senza parole e soprattutto, per metafora, no luogo a procedere. «Autograad Togliatti» ha i tratti somatici di una farsesca iperbole in grado di combinare sonorità che vanno dalle marching band americane e nord-europee fino alle marce militari dell’ex-Soviet. «Johatsu» è un babele ritmica che porta l’ascoltatore sull’estremo lembo del mondo sonoro, mentre le voci s’intensificano e s’intrecciano in una molteplicità di linguaggi. In fondo è solo il caos e l’incomunicabilità dell’era del metaverso e del virtuale all’ennesima potenza, dove la macchina sostituisce l’uomo, oramai incapace di amare, sognare e pensare liberamente, ma soprattutto incapace di connettersi alla vita reale.
I Doortri si definiscono «outsider di provincia», ma «PFAS OFF» è un disco fuori dal comune, dalla provincia e dalla regione. Metafore a parte, se un lavoro del genere, non rifinito, ripulito, non ruffiano o levigato, anche se tecnicamente impeccabile, seduce un vecchio hipster come me, non vedo perché non possa irretire migliaia di giovani, soprattutto coloro che si dicono non convenzionali o «generazione del vattelappesca». Ascoltatelo ed avrete almeno la sensazione di essere usciti per una cinquantina di minuti dall’omologazione e dalla banalità che ci circonda.