// di Francesco Cataldo Verrina //
Umbria Jazz 1988, George Benson, dopo l’ennesimo cambio di giacca con lustrini fluorescenti, attacca le prime note di «Give Me The Night», sotto uno stellato cielo di luglio, il pubblico va in delirio. Eppure quello era un pubblico del jazz, come mai tanto entusiasmo per uno dei maggiori successi della fase decadente della disco? Musica di classe sopraffina, ma pur sempre disco-music? Probabilmente, ad artisti della caratura di George Benson si perdonava tutto, oppure si riconosceva lo straordinario merito di aver avvicinato il jazz ai comuni mortali, attraverso una sapiente miscela di alchimie sonore ricche di elementi funk, contaminazioni pop e divagazioni dance. George Benson, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, ha sempre diviso l’uditorio in due: su una sponda, i puristi del jazz ed i custodi delle tradizioni, che lo videro come un pugno in un occhio, come un superficiale traditore che aveva abiurato le proprie radici, un uomo per tutte le stagioni, pronto a saltare sul carrozzone del successo senza troppi scrupoli. Sull’altro versante c’erano poi gli appassionati dello smooth jazz a presa facile o delle ballate delicate e avvolgenti, e di quella voce che si inerpicava insieme ad una chitarra sinuosa verso note e vette irraggiungibili, di quell’homo novus dal look curatissimo, rifinito fino al particolare, di un signore non più giovanissimo, ma molto sexy ed affascinante. Negli anni ’80 il decennio delle contaminazioni e delle mescolanze, Benson seppe approfittare, bonariamente, di questi giudizi contrastanti per giocare d’azzardo, pronto a gettarsi nelle mani del business più efficace e redditizio, ma altrettanto deciso a sviluppare progetti sperimentali nel settore della musica più colta.
Grazie a Franco Fayens, che mi aveva preso in simpatia, presentandomi al manager di Benson come un importante conduttore radiofonico, riuscii ad ottenere un’intervista. Il giorno dopo il concerto, in un noto albergo perugino, ci troviamo uno di fronte all’altro.
D. Ciao George, è la seconda volta che ci incontriamo, ma eviterò di farti le stesse domande. Quella notte a Roma si festeggiava il successo di «Give Me The Night», eravamo in una specie di discoteca…ma qui a Umbria Jazz, c’è un altro pubblico, forse più colto ed esigente.
R. Non sono d’accordo, mi è sembrato di vedere un pubblico alquanto variegato, misto.. che ha ballato, ascoltato ed anche applaudito, c’erano giovani, ma anche persone più mature, credo di essere trasversale, oggi è inevitabile, non siamo più negli anni Sessanta o Settanta oggi il mercato discografico si regge su una confluenza di stili.
D. Quindi ritieni che oggi sia difficile distinguere e selezionare i vari linguaggi, specie all’interno della musica afro-americana?
R. Non è difficile, è impossibile, amico mio! Non è solo questione di musica afro-americana, guarda il rock dove sta andando, sempre più vicino all’easy-pop e alle discoteche. Non siamo solo noi afro-americani che facciamo ballare le persone. Credo che i jazzisti, pur nei loro evoluzione, siano i musicisti più coerenti.
D. Perché affermi con certezza che i jazzisti siano i musicisti più coerenti?
R. Perché noi ci muoviamo sulla linea evolutiva della musica afro-americana, penso soprattutto a ciò che sta facendo Miles Davis. Il soul, il funk, la dance sono parte integrante della nostra cultura. Oggi è impensabile che un giovane nero, o bianco che sia, possa rimanere legato ad un certo tipo di musica. La grandezza del jazz sta proprio nella capacità di sapersi adattare e reinventare.
D. Ci sono alcuni che ti accusano di voler giocare su più fronti, da una parte il jazz e la fusion, dall’altra l’easy-pop-dance, come esci da questo imbarazzo?
R. Non sono per nulla imbarazzato. Sai, ho iniziato circa trent’anni fa, suonavo jazz, erano tempi difficili, anche per la chitarra come strumento. Negli anni sessanta con il bop non c’erano tantissime opportunità, la chitarra era limitata ai dischi soul-jazz, spesso con la presenza di un organo che diventava ingombrante. Così ho iniziato a strutturare uno stile tutto mio e nei primi anni Settanta ho trovato la giusta dimensione, intanto il jazz iniziava perdere colpi sul mercato, era necessario inventarsi qualcosa di nuovo.
D. Quando poi ha iniziato a cantare le ballate melodiche da airplay radiofonico e fare dischi di grande successo come «Give Me The Night», qualcuno ti ha perfino chiamato traditore.
R. Quando leggo certi attacchi da parte dei vecchi nostalgici, mi viene da ridere. All’epoca della svolta elettrica lo fecero anche con Miles, gliene dissero di tutti i colori. Incredibile, ma i più reazionari e conservatori sono proprio certi musicisti o giornalisti di colore.
D. Ti riferisci all’opera di restaurazione operata da Wynton e dalla famiglia Marsalis?
R. Assolutamente no! Anche se non sono d’accordo su tutta la linea, Wynton sta facendo un’opera di rivalutazione della cultura afro-americana, di cui il jazz e la sua storia sono la massima espressione ed un vanto per tutta l’America, bianca e nera. Sono orgoglioso di essere parte di questa tradizione. Ho vissuto la grande epopea del jazz anni ’60. Ho cominciato ad incidere che non avevo neppure vent’anni ed ho avuto la fortuna di collaborare con alcuni degli epici nomi del bebop, Dal 1965 in avanti ho cominciato a pubblicare come band-leader.
D. In effetti bisogna riconoscere che riesci in maniera mirabile ad alternare dischi cantati di facile impatto a progetti strumentali più sperimentali e sempre con grande professionalità. Sei diventato abilissimo a sdoppiarti.
R. Non è difficile, siamo musicisti e poi come dicevi tu, facciamo le cose in maniera professionale. È proprio questo il punto, cerchiamo di agire in maniera estremamente professionale. Sai, quando si fa un disco c’è tutta un’organizzazione umana e tecnologica e, soprattutto, dei costi molto alti. Dietro a ogni disco non c’è solo l’artista che suona o canta, ma molte famiglie che mangiano. Oggi a certi livelli ti consentono di giocare, sperimentare, provare, ma se in cambio fai qualcosa per loro, che significa fare qualche piccolo compromesso con il mercato. Le major ti consento di fare i dischi impegnati perché ci sono quelli commerciali che portano i soldi in cassa. I dischi di facile ascolto o dance fanno incassare quei dollari con cui le case discografiche lanciano nuovi artisti d’avanguardia. Siamo negli anni Ottanta, tutto si brucia rapidamente.
D. Il tuo album «Breezin’» del ’76, fu il primo disco di jazz-fusion della storia a guadagnare il platino, e ben tre Grammy, si potrebbe dire che sei uno di quelli che ha aperto il jazz al mercato di massa e generalista.
R. Non nascondo un certo entusiasmo, ma credo che i primi a fare numeri da pop-star siano stati Trane e Miles. Anche Keith Jarrett vende moltissimo, soprattutto in Europa.
D. Per salutarci, una domanda banale. Come si muoverà in futuro George Benson?
R. Non credo che si saranno molti cambiamenti, continuerò su questa linea, facendo dischi e concerti. In futuro mi piacerebbe fare qualche disco tributo ai grandi del blues e del soul. Vedremo!
In quasi sessant’anni di musica suonata e vissuta, Benson ne ha viste e sentite sicuramente di tutti i colori, dall’approccio con i grandi maestri, Miles Davis e John Coltrane, alle collaborazioni con Ron Carter e McCoy Tyner, agli eroi delle canzonette anni ‘80 come Michael Sembello e Jellybean Benitez. La sua linea evolutiva non ha subito interruzioni, anzi ne ha rafforzato la popolarità. Ho visto il suo concerto nell’edizione di Umbria Jazz del 2019 ed era davvero cambiato poco rispetto al 1988, solo la voce leggermente affievolita, ma era quella di un quasi ottantenne.