I tre musicisti si dissociano, si astraggono dalla dimensione cinefila e cinematica trasportando «il film della musica» in un habitat a loro più congeniale e con un plot narrativo che diventa jazz allo stato dell’arte in forma e sostanza.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Fra cinema e jazz c’è sempre stata una sorta di attrazione fatale, sin dalle origini. A pensarci bene , parliamo delle due principali forme artistiche nate ed affermatesi nel Novecento, alle quali si potrebbe aggiungere anche il fumetto. Jazz e cinema emersero in contesti metropolitani, divenendo il riflesso di quelle realtà in stretto contatto con l’evoluzione sociale, politica, economica e tecnologica. Essendo il jazz un linguaggio sonoro capace di creare situazioni ambientali e narrative alquanto suggestive, spesso il cinema si è servito di colonne sonore commissionate ad artisti jazz come Duke Ellington, John Lewis e John Zorn, specie per i «film noir»: si pensi al rapporto fra Louis Malle e Miles Davis con «Ascensore per il patibolo» o a quello fra John Cassavetes e Charles Mingus per «Ombre». Nel caso di Bruno Marini con «Untouchable Standards» avviene qualcosa di inedito e sorprendente: per paradosso è il cinema a fare da colonna sonora al jazz, o per dirla in soldoni fornisce un terreno di coltura sonora in cui il jazz può essere innestato, concimato e coltivato.

Bruno Marini è visionario, un artista capace di vedere oltre l’orizzonte della banalità, così come in altre occasioni, anche per quelli che definisce «Standard Intoccabili», tenta un approccio trasversale e, di certo non convenzionale o prevedile – sovente altri incauti jazzisti hanno sfiorato il karaoke – destrutturando sei importanti temi sonori creati per il cinema, da altrettanti autorevoli autori e compositori, riadattandoli al vernacolo jazzistico, attraverso una nuova semantica espressiva ed interpretativa. Il sistema accordale è stravolto, le melodie rivisitate ed insanguate di nuova linfa vitale e di inediti significati, dove atmosfere futuristiche diventano retrò, in cui gli apparati elettronici e di sintesi usati nelle versioni originali cedono il passo agli strumenti acustici: Bruno Marini, sax baritono e pianoforte, Martino De Franceschi contrabbasso e Alberto Olivieri batteria.

Sotto il ruggito del sax baritono le colonne sonore originali perdono così la dimensione spazio-temporale, precipitando piacevolmente in un’ambientazione post-bop anni Cinquanta e Sessanta, acquisendo credibilità e ricchezza melodico-armonica sul piano dell’improvvisazione, che diventa il valore aggiunto rispetto ad una narrazione lineare e ripetitiva. Tutto ciò non significa che il trio Marini-De Franceschi-Olivieri sia stato irrispettoso nei confronti degli arrangiatori o degli autori originali, i quali non sarebbero degni di essere considerati tali. Parliamo di sei colonne sonore importanti, composte da nomi illustri e legate ad altrettante pellicole. Film che sono passati alla storia, anche per il suggestivo transfert operato dal soundtrack: la complicità della musica in una sala cinematografica diventa fondamentale per completare il cammino delle «ombre che si muovono». Ecco perché la scelta stilistica e la mossa operata da Bruno Marini e compagni è, a dir poco, azzeccata. I tre musicisti si dissociano, si astraggono dalla dimensione cinefila e cinematica trasportando «il film della musica» in un habitat a loro più congeniale e con un plot narrativo che diventa jazz allo stato dell’arte in forma e sostanza.

Il concept di Bruno Marini si apre con la rilettura di «Alien» a firma di Jerry Goldsmith, che non perde quell’aura di inquietante disagio da drammaturgia intergalattica: la prima fase è indagatoria e circospetta, quasi nell’attesa del pericolo imminente, ma l’arrivo del sax sposta l’asse su una dimensione altra, quando, durante il basso impero dell’hard bop si prospettava all’orizzonte l’arrivo del free form, mentre le bordate sul pianoforte, suonato dallo stesso Marini, ricordano Cecil Taylor. «Escape From New York», la celebre fuga, o sopravvivenza in un mondo stravolto da una catastrofe, in cui John Carpenter, che già sognava i suoi zombies, dimostra di essere un valido regista istaminico e tensioattivo, perfino la musica che compone, per quanto prodotta con due dita su un tastiera giocattolo ed un campionatore, finisce per essere fortemente suggestiva, ma Bruno Marini ne allarga gli orizzonti trasportandola in una dimensione sospesa e shorteriana, implementata da un groove incisivo ed incalzante. Senza indugiare troppo nel rimarcare le differenze, sarebbe davvero difficile riconoscere la mano del greco Vangelis, dopo aver ascoltato la versione di «Blade Runner» ricreata in vitro, ma con additivi naturali, da Marini e soci così come «Terminator» di Brad Fiedel, che di solito tende alla spettacolarità, in questo caso il lavoro di ricostruzione sonora apporta elementi prossimi al post-bop verticalizzante, al punto che alcune dinamiche, vicine alla narrazione coltraniana o shorteriana, diventano evidenti al primo impatto. «The Thing» è il film in cui Carpenter capisce che serve un vero compositore di musiche da film, ed il maestro Morricone si adattò anche a quel cupo ambiente di alieni e turbe mentali. Pensate che il grande Ennio scrisse due colonne sonore complete e separate. sia per orchestra che per sintetizzatore, ed una seconda combinata, che sapeva essere la preferita di Carpenter. Il regista scelse un pezzo molto simile alle sue musiche, utilizzandolo come tema principale in tutto il film. Anche in tal caso rispetto al tema originale le differenze sono marcate ed il jazz finisce per essere geneticamente dominante. Al netto di ogni suggestione cinefila o jazzofila, «Untouchable Standards» di Bruno Marini è un disco di pregevole fattura esecutiva. Va da sè che l’originalità dell’opera sia indiscutibile sotto il profilo destruens della sintassi originale di tipo filmico, a tutto vantaggio di una modalità d’impiego di quello stesso scibile sonoro in ambito jazzistico.

I tre musicisti si dissociano, si astraggono dalla dimensione cinefila e cinematica trasportando «il film della musica» in un habitat a loro più congeniale e con un plot narrativo che diventa jazz allo stato dell’arte in forma e sostanza.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Fra cinema e jazz c’è sempre stata una sorta di attrazione fatale, sin dalle origini. A pensarci bene , parliamo delle due principali forme artistiche nate ed affermatesi nel Novecento, alle quali si potrebbe aggiungere anche il fumetto. Jazz e cinema emersero in contesti metropolitani, divenendo il riflesso di quelle realtà in stretto contatto con l’evoluzione sociale, politica, economica e tecnologica. Essendo il jazz un linguaggio sonoro capace di creare situazioni ambientali e narrative alquanto suggestive, spesso il cinema si è servito di colonne sonore commissionate ad artisti jazz come Duke Ellington, John Lewis e John Zorn, specie per i «film noir»: si pensi al rapporto fra Louis Malle e Miles Davis con «Ascensore per il patibolo» o a quello fra John Cassavetes e Charles Mingus per «Ombre». Nel caso di Bruno Marini con «Untouchable Standards» avviene qualcosa di inedito e sorprendente: per paradosso è il cinema a fare da colonna sonora al jazz, o per dirla in soldoni fornisce un terreno di coltura sonora in cui il jazz può essere innestato, concimato e coltivato.

Bruno Marini è visionario, un artista capace di vedere oltre l’orizzonte della banalità, così come in altre occasioni, anche per quelli che definisce «Standard Intoccabili», tenta un approccio trasversale e, di certo non convenzionale o prevedile – sovente altri incauti jazzisti hanno sfiorato il karaoke – destrutturando sei importanti temi sonori creati per il cinema, da altrettanti autorevoli autori e compositori, riadattandoli al vernacolo jazzistico, attraverso una nuova semantica espressiva ed interpretativa. Il sistema accordale è stravolto, le melodie rivisitate ed insanguate di nuova linfa vitale e di inediti significati, dove atmosfere futuristiche diventano retrò, in cui gli apparati elettronici e di sintesi usati nelle versioni originali cedono il passo agli strumenti acustici: Bruno Marini, sax baritono e pianoforte, Martino De Franceschi contrabbasso e Alberto Olivieri batteria.

Sotto il ruggito del sax baritono le colonne sonore originali perdono così la dimensione spazio-temporale, precipitando piacevolmente in un’ambientazione post-bop anni Cinquanta e Sessanta, acquisendo credibilità e ricchezza melodico-armonica sul piano dell’improvvisazione, che diventa il valore aggiunto rispetto ad una narrazione lineare e ripetitiva. Tutto ciò non significa che il trio Marini-De Franceschi-Olivieri sia stato irrispettoso nei confronti degli arrangiatori o degli autori originali, i quali non sarebbero degni di essere considerati tali. Parliamo di sei colonne sonore importanti, composte da nomi illustri e legate ad altrettante pellicole. Film che sono passati alla storia, anche per il suggestivo transfert operato dal soundtrack: la complicità della musica in una sala cinematografica diventa fondamentale per completare il cammino delle «ombre che si muovono». Ecco perché la scelta stilistica e la mossa operata da Bruno Marini e compagni è, a dir poco, azzeccata. I tre musicisti si dissociano, si astraggono dalla dimensione cinefila e cinematica trasportando «il film della musica» in un habitat a loro più congeniale e con un plot narrativo che diventa jazz allo stato dell’arte in forma e sostanza.

Il concept di Bruno Marini si apre con la rilettura di «Alien» a firma di Jerry Goldsmith, che non perde quell’aura di inquietante disagio da drammaturgia intergalattica: la prima fase è indagatoria e circospetta, quasi nell’attesa del pericolo imminente, ma l’arrivo del sax sposta l’asse su una dimensione altra, quando, durante il basso impero dell’hard bop si prospettava all’orizzonte l’arrivo del free form, mentre le bordate sul pianoforte, suonato dallo stesso Marini, ricordano Cecil Taylor. «Escape From New York», la celebre fuga, o sopravvivenza in un mondo stravolto da una catastrofe, in cui John Carpenter, che già sognava i suoi zombies, dimostra di essere un valido regista istaminico e tensioattivo, perfino la musica che compone, per quanto prodotta con due dita su un tastiera giocattolo ed un campionatore, finisce per essere fortemente suggestiva, ma Bruno Marini ne allarga gli orizzonti trasportandola in una dimensione sospesa e shorteriana, implementata da un groove incisivo ed incalzante. Senza indugiare troppo nel rimarcare le differenze, sarebbe davvero difficile riconoscere la mano del greco Vangelis, dopo aver ascoltato la versione di «Blade Runner» ricreata in vitro, ma con additivi naturali, da Marini e soci così come «Terminator» di Brad Fiedel, che di solito tende alla spettacolarità, in questo caso il lavoro di ricostruzione sonora apporta elementi prossimi al post-bop verticalizzante, al punto che alcune dinamiche, vicine alla narrazione coltraniana o shorteriana, diventano evidenti al primo impatto. «The Thing» è il film in cui Carpenter capisce che serve un vero compositore di musiche da film, ed il maestro Morricone si adattò anche a quel cupo ambiente di alieni e turbe mentali. Pensate che il grande Ennio scrisse due colonne sonore complete e separate. sia per orchestra che per sintetizzatore, ed una seconda combinata, che sapeva essere la preferita di Carpenter. Il regista scelse un pezzo molto simile alle sue musiche, utilizzandolo come tema principale in tutto il film. Anche in tal caso rispetto al tema originale le differenze sono marcate ed il jazz finisce per essere geneticamente dominante. Al netto di ogni suggestione cinefila o jazzofila, «Untouchable Standards» di Bruno Marini è un disco di pregevole fattura esecutiva. Va da sè che l’originalità dell’opera sia indiscutibile sotto il profilo destruens della sintassi originale di tipo filmico, a tutto vantaggio di una modalità d’impiego di quello stesso scibile sonoro in ambito jazzistico.

Bruno Marini