Il sassofono di Turrentine corre a tutto campo ed a pieni polmoni per tutto l’album, condividendo spesso la scena con il pianoforte di Les McCann, il quale apporta uno swing zampillante, mentre dalla retroguardia basso e batteria elaborano un groove sghembo ed essenziale.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Satura di soul ed imbevuta blues, «That’s Where It’s At» del 1962 è certamente una delle più riuscite sessioni Blue Note di Stanley Turrentine il sassofono più soulful della storia del jazz moderno, capace di divincolarsi tra aspre atmosfere urbane di tipo funkified, ma di descrivere al contempo ambientazioni delicate e bucoliche. Il sassofono di Turrentine corre a tutto campo ed a pieni polmoni per tutto l’album, condividendo spesso la scena con il pianoforte di Les McCann, il quale apporta uno swing zampillante, mentre dalla retroguardia basso e batteria elaborano un groove sghembo ed essenziale. Il combinato disposto fra i quattro musicisti dà vita a un inebriante e potente infuso sonoro a base di soul-jazz.
Registrato, il 2 gennaio 1962, al Rudy Van Gelder Studio, «Note That’s Where It’s At» sottolinea in primis l’importanza storica delle due uniche collaborazioni tra il sassofonista ed il pianista Les McCann, i quali si sarebbero ritrovati solo nel 1984 per incidere un paio di brani destinati a «Straight Ahead» di Turrentine. La sezione ritmica è degnamente completata dal contrabbassista Herbie Lewis, gia al fianco di Les McCann nei The Les McCann Ltd, e dal batterista Otis «Candy» Finch. Dei sei componimenti proposti, quattro recano in calce la firma di Les McCann, uno di Stanley e uno del fratello Tommy Turrentine. L’album non tradì le attese della vigilia dopo che la critica, all’unanimità, aveva salutato il precedente, «Dearly Beloved», come l’album più riuscito del sassofonista di Pittsburgh. Una delle poche voci dissenzienti fu quella di Downbeat, che scrisse una recensione contrastante. Sin dal suo approdo in casa Lion, Turrentine aveva registrato cinque sessioni, mantenendo uno score qualitativo alquanto elevato, in particolare «Look Out!» del 1960, una registrazione realizzata con il batterista Al Harewood, il bassista George Tucker e il pianista Horace Parlan, legata al bop tradizionale ed assai diversa dalle successive uscite blues-soul-jazz. Tuttavia, l’album aveva impressionato i critici di ogni ordine e grado, i quali rimasero soggiogati dalla potenza espressiva, dalla chiarezza del suono del novello eroe del sax, nondimeno dalla dolcezza e dall’articolazione del suo ricco fraseggio. Così, a differenza di «Z.T.’s Blues», fissato su nastro lo stesso anno, ma pubblicato nel 1965, «That’s Where It’s At» riconfermò l’attitudine di Turrentine a produrre dischi di inequivocabile eleganza formale, ma carichi di «anima» e di pathos. Non si dimentichi che il giovane Stanley, il cui principale punto di riferimento era stato il mitico Illinois Jacquet, aveva forgiato le armi del mestiere all’interno di varie compagini blues e R&B, suonando nell’ensemble di Lowell Fulson e con Ray Charles dal 1950 al 1951, mentre nel 1953 era andato a sostituire John Coltrane nella R&B/jazz band di Earl Bostic. L’incontro con l’organista Shirley Scott – che sposerà nel 1960 – ed il sodalizio a Filadelfia con Jimmy Smith, fecero di lui uno dei sassofonisti più vicini alle dinamiche del boogaloo e del soul-jazz.
«That’s Where It’s At» si apre con una composizione uptempo, «Smile, Stacey» – di certo il climax dell’album – in cui Les McCann e Stanley Turrentine sembrano trovare una perfetta affinità elettiva, agendo sul parenchima sonoro in maniera chirurgica e coordinata, soprattutto con un tempismo olimpionico nei cambi di passo. A seguire «Soft Pedal Blues», un trastullo notturno, vagamente ruminante, dove il sassofono, con passo lento e spaziato, procede in maniera lunatica, quasi svogliata, con la complicità del pianoforte che ne corrobora lo spessore drammatico, ma che, in taluni frangenti, ne fa emergere finanche una certa l’ironia. «Pia» si erge su un mid-range inizialmente trattenuto, in cui la narrazione di Turrentine risulta implodere verso l’interno. Il sassofonista sembra alimentato da una forza centripeta, prima di concedere al socio di maggioranza, Les McCann, l’opportunità di aggiungere alcuni schizzi armonici alla tela espositiva. I due sodali si alimentano a vicenda come una dinamo, intenzionati a tirare fuori il meglio l’uno dall’altro: il gioco ad incastro è perfettamente riuscito, mentre il sassofono cresce progressivamente di potenza, ma con sobrietà, muovendosi verso l’esterno con il sostegno della retroguardia ritmica che non lascia aria ferma.
Quando si volta pagina, sulla B-Side, «We’ll See Yaw’ll After While, Ya Heah», il sinestetico gioco tra sax e pianoforte non concede tregua e non fa prigionieri, mentre il contrabbasso di Herbie Lewis e la batteria di Otis Finch, fungono da aggreganti. Il sassofono di Stanley Turrentine, tra muscoli e cuore, distilla blues a fiotti. Nel frattempo, le dita di Les McCann danzano su e giù per la tastiera del pianoforte, disegnando una serie infinita di nuances armoniche e contendendo la scena al titolate dell’impresa, dimostrando così di esserne un perfetto contrappunto e non una diafana controfigura. Sin dalle battute iniziali «Dorene Don’t Cry», trasfusa di sangue blues, sviluppa un sound struggente dai contorni cinematografico che, metaforicamente, veicola immagini di intime sofferenze e di amori traditi e contrastati. «Light Blue» suggella l’album sulle ali di una ballata crepuscolare e brunita, in cui McCann e Turrentine secernono dalle loro ghiandole creative pungenti enzimi soulful. Dopo l’uscita di «That’s Where It’s At», Stanley Turrentine trascorse il resto degli anni Sessanta presso la scuderia Blue Note, pubblicando una serie di album di elevata qualità, quali «Hustlin’», «Easy Walker», «The Spoiler» e «The Look Of Love». All’alba degli anni Settanta, il sassofonista lasciò l’etichetta di Alfred Lion per trasferirsi alla CTI Records di Creed Taylor, passaggio che segnò un cambiò di direzione musicale, avvicinando Turrentine alla fusion-funk ed a sfiorare, in tale ambito, il capolavoro con «Sugar» del 1970. I tempi erano cambiati e sul medesimo asse si sarebbero presto spostati altri ex-alfieri Blue Note come Donald Byrd e Freddie Hubbard.
