//di Francesco Cataldo Verrina //
La solita liturgia iniziale è calata in una scenografia galattica, ma Carlo Conti, sempre abbronzato, arriva e l’audio della sua voce sparisce dopo qualche secondo di introduzione. Si va al sodo: sul palco è pronta Gaia, la prima cantante in gara, con un pezzo insipido e deja-vu, musicalmente disarmonico e sorretto dalla solita cassa in quattro, sulla quale è spalmato un testo che sembra l’apoteosi della banalità, “..chiamo io, chiami tu…”, accompagnato da un balletto degno di una coreografia da recita scolastica. A seguire, Francesco Gabbani, il quale sembra aver perso l’ironia e lo smalto, imborghesito dal successo: il suo “Viva la vita” è un terzinato ondeggiante da ballo delle debuttanti anni Cinquanta e nel ritornello siamo non lontani da una sala liscio. Bella l’accoglienza a Gerry Scotti che porta un po’ di vivacità, soprattutto lancia il suo primo annuncio ufficiale senza la solita retorica paludata dei conduttori di RAI Uno. Rkomi, a petto nudo e con la sua pessima dizione, biascica un testo su un loop post-wave che si trasforma presto in un ritmo disco anni Ottanta, ma a parte il testo senza un senso compiuto, la melodia non decolla mai, anzi di melodia davvero neppure l’ombra, se non quattro note, sempre le stesse in fase calante, per la serie “oh che bel castello marcondirondirondello”. Noemi, dimagrita, quasi diafana, stenta a scendere le scale: gli effetti del digiuno o la paura di cadere? “Se t’innamori muori” è un pezzo con idee rubacchiate a destra e manca, vagamente anni settanta, e che la sua voce graffiante non riesce a nobilitare: manca il gancio o quel ritornello che lascia il segno e, quando il brano finisce, sembra che non abbia cantato nessuno. Finalmente arrivano anche i fiori di Sanremo. A questo punto irrompe sul palco la Clerici e con l’Antonella nazionale si aggiunge ironia allo stage. Mentre i tre conduttori chiacchierano, lo spettacolo regge e non si prova nostalgia per le canzoni. Di grande effetto, e piuttosto toccante, il ricordo di Fabrizio Frizzi.
Si torna alla gara ed è la volta di Irama vestito come Napoleone dopo la sconfitta a Waterloo. Il giovane virgulto canta bene e la sua canzone mostra una struttura regolare con dei cambi di passo e di mood: la melodia non è a presa rapida come nelle precedenti edizioni, ma ci sono tutti i parametri tipici della canzone d’amore Web 4.0 e le radio ne faranno sicuramente una hit. Seguono i Coma Cose con gli abiti del loro recente matrimonio (presumo): lei, trucco pesante ed atteggiamento alla Lene Lovich, ma senza il tanto atteso piglio punk. La canzone è scialba ed infantile già nel titolo, “Cuoricini”. I due coniugi sono un po’ cresciuti, ma di certo hanno scambiato Sanremo per lo Zecchino d’Oro. Comunque, nihil sub sole novi. È la volta del tanto atteso Cristicchi: ottimo testo di stampo cantautorale. L’argomento è delicato, la melodia dolce e l’interpretazione quasi sussurrata. Simone non tradisce le attese della vigilia e si prende subito una standing ovation. Marcella Bella è una veterana del Festival e non ha nulla da dimostrare. Incarna un’elegante signora che canta con padronanza e disinvoltura, ma si sente che, purtroppo, la manifattura del pezzo non appartiene al fratello Gianni per ovvi motivi, anche se ne ricalca un certo stile anni Settanta. A conti fatti, Marcella sembra molto più giovane delle cantanti che l’hanno preceduta, almeno ha uno stile ed una personalità già consegnati alla storia della musica leggera italiana. Achille Lauro entra in scena vestito a metà strada fra Dracula invitato ad un party dell’AVIS ed un cameriere del Grand Hotel di Rimini. Il cantante romano ha messo da parte il suo atteggiamento dissacrante e canta “…maledetti giovani… su una buona melodia retrò dal gusto Sanremese con tanto di sassofono nelle frasi finali. Annunciato fra i probabili vincitori, potrebbe esserlo per davvero.

Il primo intermezzo con ospiti porta sul palco dell’Ariston Noa e Mira Awad, un’israeliana ed una palestinese che sottolineano le assurdità delle guerre tra popoli vicini, precedute da un messaggio di Papa Francesco legato alla giornata mondiale dei bambini. Le due cantati intonano una suggestiva versione di “Imagine” di John Lennon in arabo, ebraico e inglese. Sanremo è anche questo. L’aura papale diventa propedeutica all’ingresso di Giorgia, elegante e femme fatale, che con “La cura per me” ritorna ad una tipologia di canto più vicino alla sua estensione vocale. La canzone ha un’ottima struttura con il classico bridge ed il crescendo che rendono la melodia dell’inciso facilmente combustibile: le radio c’andranno a nozze e gli Italiani la canteranno a squarciagola. Willy Peyote, al netto del nome, ha davvero un aplomb ed un groove molto internazionale, il suo rapping risulta molto incisivo ed old school, soprattutto ricorda vagamente Pino D’angiò. Divertente, ironico e ballabile. Rosa Villain, di rosso vestita, con il suo “Fuori Legge” sembra davvero essere fuori gara. Il solito strilletto senza nessuna consonanza armonica o legame tra la cassa e la melodia. Un po’ di tutto, praticamente uguale al niente. Perfino le sviolinate dell’orchestra ed il botta e risposta finale sanno di artefatto fino al midollo. Il Jovanotti anatomo-patologo, che parla del corpo umano, citando San Francesco D’Assisi è il solito inutile pillotto prolisso frutto di una modesta scolarizzazione, anche musicale, e di una cultura ammassata e parcellizzata. Non bastano migliaia di tamburi e taluni accenni afro-centrici ed asian-oriented a fare di lui il profeta dell’ethno-music. Siamo alla solita goliardata italiota che mischia sacro, profano e filosofia spicciola: tanto rumore per niente e le solite melodie già sentite con tanto di ruffianata finale: “il festival di Sanremo è proprio bello, bellissimo, come Pasqua, Natale e Capodanno…sto sentendo le canzoni e mi piacciono tutte“, dice Jovanotti. Quindi l’arrivo del saltatore Gianmarco Tamberi in smoking che recita come Topo Gigio. Sembra tutto spontaneo, ma la pantomima di Jovanotti pare sia costata alla RAI centomila euro. Dopo il cambio d’abito della Clerici riprende, finalmente, la gara con Olly che, da buon ligure, è vestito come un camallo (scaricatore di porto). La sua “Balorda Nostalgia” rappresenta il solito urletto rabbioso senza struttura armonica con il testo scritto da uno che ha frequentato le scuole serali al buio. La libellula Elodie svolazza fra le note senza mai trovare un punto di sutura. La sua bellezza è inversamente proporzionale alla bruttezza del pezzo segnato da crescendi sull’ottava più alta che ricordano la migliore Rosanna Fratello, cassa a parte. Con Shablo ritorna sullo stage la street music all’italiana, ma proprio all’italiana, il cosiddetto hip-pop che di afrologico ha solo l’estetica e le intenzioni: più che Shablo, sembra scialbo. Massimo Ranieri irrompe dalla scalinata con una giacca da gelataio e “Con tra le mani un cuore”. La potenza melodica di Ranieri, che nel crescendo ricorda perfino Claudio Villa, non fa rimpiangere l’assenza del Volo, ma siamo anni luce lontani da “Perdere l’amore”. FINE PRIMA PARTE. Quindi una piccola digressione esterna con il Suzuki Stage e Raf che ci catapulta negli anni Ottanta con l’iconica “Self Control”, snodo nevralgico dell’italo-disco.
Il discusso Tony Effe, di bianco vestito e con i guanti da meccanico, sconvolge i malpensanti con un brano romanesco a metà strada tra i Vianella e Lando Fiorini ed un inciso alla Califano. Serena Brancale diretta dalla sorella Nicole canta “Anema e Core” in italo-napoletano con un frenetico arrangiamento dal latin tinge che fa pensare vagamente a “Sesso e Samba”. Certamente uno dei punti più interessanti della gara. È il momento di un outsider. Brunori Sas con “L’albero delle noci” tenta un lancio nazional-popolare dopo aver agito a lungo nelle retrovie del cantautorato engage. Il musicista calabrese non smentisce la propria verve con una canzone dalla struttura semplice ma immediata. L’atteso ritorno dei Modà, nonostante l’impegno, non scrolla e non rolla, tropo tempo è passato e la musica è cambiata. Clara, fasciata nel domopak trasparente che ne esalta le fattezze propone il solito balletto fra trap, tricche e ballacche. Difficile distinguere le nuove starlette della canzone italiana. Lucio Corsi giovane cantautore riporta il formato canzone all’Ariston con “Volevo essere un duro”. Vestito come un David Bowie d’antan si siede al piano come Elton John e canta come un novello Alberto Camerini. Nulla che gli occhi del mondo non abbiano già visto. Fedez, re del gossip, scende le scale con uno sguardo un po’ contrito. Il brano lo richiede, ma rispetta il suo standard e non va oltre. Nel suo “Battito” sembra esserci molto di biografico: prenditi i sogni e pure i miei soldi. Bresh, definito dal fine dicitore come nuovo esponente della scuola genovese, canta però a metà strada tra Ligabue e Pierangelo Bertoli con voce stentorea; esce dalla “Tana del granchio”, ma non entra nel mood sanremese. La diciottenne Sara Toscano, una bambinona con la treccia, la più giovane in gara, non si distingue minimamente dalle sue colleghe più attempate: il ritmo ottenebra la melodia e la struttura armonica è solo un miraggio. Non c’è gancio, non c’è attrattiva. O tempora o mores, dirà qualcuno, ma la canzone italiana in senso stretto latita. A seguire un’altra giovinetta, Joan Thiele, introdotta come cantautrice, si esibisce con tanto di chitarra a tracolla e, finalmente, la melodia decolla in un formato canzone con ascendenze anglofone e qualche schitarrata. Rocco Hunt, il profeta dell’hip-hop liofilizzato ed a presa rapida, non si smentisce: l’inciso in salernitano arriva dritto al cuore dei neo-melomani. Francesca Michielin già enfant prodige, dopo la falsa partenza, ravviva il mito pausiniano, facendo pensare alla Tatangelo. Chissà se c’è “Fango in paradiso” e anche sul palco dell’Ariston? The Kolors con “Tu con chi fai l’amore” aspirano ad avere un mood ed look vintage, almeno anni ’80, e si capisce dal vecchio microfono usato dal cantante, Antonio Stash Fiordispino. L’inciso è facilmente spendibile, il tormentone è assicurato. La gara è terminata, quindi la classifica randomica dei primi cinque decretata da sala stampa, Web e TV. Adesso, il Dopo Festival, in cui gli Italiani possono vedere Selvaggia Lucarelli a figura intera, ma arriva Jovanotti che tenta nuovamente di prendersi la scena come un bimbo mai stanco di parlare dei propri giocattoli et Sic transeat gloria mundi. Giuro di non scrivere più di Sanremo per i prossimi dieci anni.
