L’apocalisse non mostra gli effetti e le sembianze di quella biblica o di quella raccontata dai griot, ma si manifesta nelle marcate contraddizioni e differenze fra Nord e Sud del mondo, in cui gli abitanti dei paesi ricchi vivono immersi in un malessere quotidiano prodotto dall’individualismo e dall’eccesso di benessere.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Ho atteso quasi cinque anni prima di recensire questo disco e, leggendo, ne capirete le motivazioni. Non che io abbia mai messo in discussioni le capacità del sassofonista jazz britannico-barbadiano. Certo dirigere tre gruppi diversi può sembrare un’arroganza, ma l’energia e la visione del mondo e della musica di Shabaka Hutchings non sono facilmente circoscrivibili o contenibili, ma vanno compresi ed analizzati. Dopo «Your Queen Is a Reptile» dei Sons Of Kemet e «Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery» dei The Comet Is Coming, mi sembrava che intorno al musicista afro-londinese ci fosse un eccesso di entusiasmo mediatico, alquanto scontato, nonché dettato più da esigenze indotte dal marketing e dalla pubbliche relazioni dagli uffici stampa della Impulse! Records, piuttosto che da una sorta di contagio che faceva sentire tutti sul pezzo, quali entusiastici cavalcatori della moda del momento. In più, quel motto, «Siamo stati mandati qui dalla storia», sembrava una battuta ad effetto del tipo «Siamo in missione per conto di Dio», frase pronunciata dai Blues Brothers nell’omonimo film. Le differenze con i precedenti lavori erano evidenti: i«We Are Sent Here By History» risulta al tempo stesso più calmo e minaccioso, soprattutto non ci sono squilli di sintetizzatore e ritmi fratturati; al contrario, il tenore e il clarinetto di Hutchings appaiono contrapposti ad un ensemble acustico guidato dal contrabbasso e inondato dal piano Fender Rhodes, un approccio che spesso riecheggia il distinto lignaggio jazzistico del Sudafrica.

Quando l’album usci nel 2020, il mondo era attanagliato dalla pandemia, di cui non si conosceva ancora un via di scampo o di uscita. C’era stato forse un involontario presagio nel primo album del gruppo, «Wisdom Of The Elders», che avrebbe potuto servire da avvertimento, quasi predittivo, delle cose a venire. Sotto il profilo filosofico, però, in un contesto a metà strada tra la cosmologia di San Ra e l’ascensionismo coltraniano, in quei giorni, questo disco si poteva leggere come un manifesto programmatico, una registrazione degli errori e dei passi falsi compiuti dall’umanità che avrebbero portato alla fine stessa della nostra stirpe. Oggi ex-post, possiamo dire che la pandemia non è servita a niente, o meglio non ha insegnato nulla agli umani. Il mondo è peggiore di prima, mentre egoismi, guerre, trumpismi, muri, dogane, dazi, nazionalismi e populismi dominano a tutto campo. Ecco perché l’attualità di «We Are Sent Here By History» diventa ancora più stringente e ne accresce la valenza politica, nonostante l’atmosfera sia comunque futurista, come taluni moniti provenienti più dalla cinematografia che dalla storia. Hutchings ama gli avvertimenti apocalittici e le declamazioni infuocate, redatte insieme al poeta Siyabonga Mthembu, frasi adeguatamente cariche di terrore, a cominciare dall’esplosione compulsiva contenuta nei dieci minuti di «They Who Must Die». I testi sono pronunciati in maniera cadenzata nel gorgo di una tempesta rabbia, da cui emerge una narrazione pacata e parafrasata del neroniano incendio di Roma. «You’ve Been Called» si apre con un lungo verso di Mthembu: «Siamo mandati qui dalla storia. L’incendiario ha dato fuoco ed ha assistito al rogo. L’incendio della repubblica. Bruciati i nomi, bruciati i registri, bruciato l’archivio, bruciate le bollette, bruciato il mutuo, bruciati i prestiti agli studenti, bruciata l’assicurazione sulla vita. Un atto di distruzione diventato creazione». Non si tratta tanto di una metafora, ma alla luce di quanto accade nel mondo, di una ricetta per creare delle fondamenta solide, con la consapevolezza che per costruire qualcosa di nuovo bisogna prima eliminare il marciume.

Va da sé, che noi uomini, abitanti del Vecchio Continente, cresciuti con una visione differente del mondo basata sulla parola scritta, le leggi, le convenzioni, la mediazione, difficilmente potremmo introiettare o accettare le predizioni che narrano dell’apocalisse in un futuro non lontano, suggerendo che per costruire il «nuovo», alcune cose dovranno prima bruciare. In Africa occidentale, le storie sono tramandate per generazioni dai griot, i cantastorie che raccolgono la saggezza del passato. Anche dopo l’avvento della parola scritta, questi antenati (Ancestors) sono stati il modo più sicuro per registrare la conoscenza: le pergamene rischiavano di andare perse e le biblioteche di bruciare, ma le storie orali potevano essere condivise dalla coscienza collettiva, scritte nei geni, in grado di sopravvivere alle tragedie individuali e resistere al tempo. «We Are Sent Here By History, il secondo album di Shabaka Hutchings And the Ancestors, è un concept calato in questa tradizione, una storia vivente che guarda indietro diventando un monito per al nostra civiltà decadente, per quanto immerso in una dimensione quasi sciamanica. L’album, registrato a Johannesburg e Città del Capo nel 2019, non è tanto preveggente quanto ampiamente in sintonia con la condizione degli emarginati e dei migranti, altro problema di scottante attualità politica, come dichiarato dallo stesso Hutchings, «per le vite perse e le culture smantellate da secoli di espansionismo occidentale, pensiero capitalista ed egemonia strutturale della supremazia bianca, i giorni della fine sono stati a lungo annunciati come presenti, in questo mondo vissuto come l’incarnazione di un purgatorio vivente». Shabaka si pone sulla linea di demarcazione di alcune delle influenze formative negli anni ’60 e ’70, tra cui John Coltrane, Archie Shepp e Pharoah Sanders. Gli Ancestors non cercano di consigliarci su come evitare l’apocalisse, si chiedono invece, ora che è arrivata, o sta per arrivare, che cosa faremo? Va da sé che l’apocalisse non mostra gli effetti e le sembianze di quella biblica o di quella raccontata dai griot, ma si manifesta nelle marcate contraddizioni e nelle differenze fra Nord e Sud del mondo, in cui gli abitanti dei paesi ricchi vivono immersi in un malessere quotidiano prodotto dall’individualismo e dall’eccesso di benessere.

Sicuramente la grande illusione di Shabaka e compagni è credere che ogni argomento da loro proposto possa davvero cambiare il pensiero dell’uomo occidentale attraverso la potenza dei canti e degli strumenti – se non a livello di pura fruizione musicale – attraverso la loro qualità lirica e contemplativa catturata dall’ecclesiastico «Go My Heart, Go To Heaven», dal rootsy e determinato «We Will Work» o dalla chiusura roca e sofferta di «Teach Me To Be Vulnerable» e che possano fare da motore e contrappunto al discorso di Hutchings su «cosa succede quando la vita come la conosciamo non potrà più continuare». In verità, la musica diventa il vero aggregante del disco ed, al netto delle parole, il monito arriva. Gli Ancestors, che provengono per lo più dal Sudafrica, sono un sestetto di afro-jazz «dell’era spaziale» che collega i punti nevralgici della diaspora africana sparsi tra i vari angoli della terra. L’eredità afro-caraibica di Hutchings è evidente negli stilemi soca del suo sax, basta ascoltare il contrabbasso di Ariel Zamonsky, colonna portante del disco, mentre rivendica l’ascendenza del jazz di Hugh Masekela e delle township sudafricane. Il fraseggio delle ance – dal sax alto di Mthunzi Mvubu al tenore ed al clarinetto di Hutchings – ricorda spesso un duo rap con battute intrecciate come una corda attorcigliata. Il senso di urgenza inizia immediatamente con «They Who Must Die», dove sax tenore e sax alto si spalleggiano e si sostengono quasi mutualisticamente, mentre la furiosa sezione ritmica, Ariel Zamonsky (contrabbasso), Tumi Mogorosi (batteria) e Gontse Makhene (percussioni), sembra adagiare i propri groove in modo automatico e mercuriale sul tono impresso dai solisti della prima linea. Le grida «brucia gli archivi, brucia i dischi, brucia i libri» mettono in risalto quel profondo senso di smarrimento determinato ripetutamente dalla nostra società dei consumi voluttuari. Le tastiere e le percussioni offrono momenti di tregua, ma la suspense è tangibile ed Hutchings offre assoli magnificamente penetranti. La libertà che ogni musicista sembra pretendere nel trasmettere il messaggio non si arresta in «Go My Heart, Go To Heaven» che ringhia con una robusta linea di basso, innescando i mormorii del sax tenore. Mvubu segue le medesime coordinate in «Behold, The Deceiver», dove le corde di Zamonsky attaccano a vibrare, prima che le tastiere entrino in scena ed illuminino il costrutto sonoro al fine di renderlo meno ossessivo.

Le performance sono tecnicamente impeccabili, ma a volte primordiali, come le urla sovrumane dei fiati in «The Beasts Too Spoke Of Suffering» che estendono la portata dell’album oltre la dimensione terrena, dove tutti cadono in una trance collettiva e divagante, fino a quando le voci risuonano come quelle di esseri sconvolti che chiedono pietà per i danni causati all’ambiente e alla natura. La narrazione diventa ancora più avvincente quando l’ensemble esplora i difetti congeniti dell’umanità, ad esempio le radici della misoginia in «We Will Work (On Redefining Manhood)», in cui si passa da un canto naturale e fluente a melodie veloci puntate in più direzioni. La sensazione di estasi collettiva risuona con forza soprattutto quando il clarinetto si sposa con la voce. Il nucleo evocativo dell’album va comunque ricercata nella poesia del performer Siyabonga Mthembu, tanto che i titoli dei brani e il loro recondito concetto risultano radicati nelle sue parole scandite in zulu, xhosa e inglese, quindi la quiete dopo la tempesta con una chiusura più riflessiva affidata a «Teach Me How To Be Vulnerable», un dialogo fra il sax di Shabaka e il piano brunito ed intimista di Thandi Ntuli, i quali si concedono all’ascoltatore con un tono più ponderato su cui riflettere: lo stesso Hutchings in un’intervista a The Guardian ha ammesso di essere un ottimista nonostante il mood dell’album. Nel complesso quella di Shabaka è una musica che ci fa sentire meno soli nella nostra rabbia, un coro a cui unirsi, un imbuto in cui incanalare l’energia, mentre il messaggio politico che passa è un promemoria atto a ricordare che qualsiasi redenzione deve prima riconciliarsi con le lezioni della storia, al fine di correggere gli errori, nonché una testimonianza della bellezza della resilienza e di quanto un’accusa al potere possa suscitare ispirazione piuttosto che depressione. Al netto di ogni suggestione, però, potrà mai l’umanità imparare dai propri errori?

Shabaka & The Ancestors

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