L’incontro al vertice fra il jazz ed il funk determinò numerosi modelli espressivi che si diffusero come un virus sinciziale, finendo per condizionare anche l’intero comparto fusion. Uno dei tanti jazzman di alto lignaggio, che privilegiò l’incontro fra il soul-jazz e il funk elettrico, fu Donald Byrd.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Gli anni Settanta sono stati un crogiolo di stili, di tendenze e di metalinguaggi sonori che si sono accavallati, fusi e compenetrati sfruttando l’evoluzione tecnologica del periodo e facendo marcatamente ricorso alle strumentazioni elettroniche, mentre l’uso della chitarre distorte modello hardwarrior, faceva sembrare certa musica più simile al rock che al jazz: Chick Corea con Return To Forever, i Weather Report e Tony Williams Lifetime, sulla scia della svolta elettrica davisiana, costituirono le punte avanzate del fenomeno insieme a Larry Coryell’s Eleventh House o la Mahavishnu Orchestra, ma l’elenco potrebbe essere lunghissimo. La cosiddetta fusion jazz-rock, per lungo tempo fu dominante sul mercato, sovente spacciata per jazz nell’accezione più stretta del termine, a causa di una debacle del mainstream, di una recessione del vernacolo tradizionale ed il suo parziale allontanamento dalle manifestazioni e dagli eventi jazzistici di quel periodo, compreso fra la seconda metà degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta

Parafrasando Karl Kraus, potremmo dire che – essendo il jazz la puttana di tutti che il poeta rende vergine – la fusion-rock non fu l’unico ibrido di risonanza a cui il jazz cedette le proprie fattezze. Per quando, da un certo momento in avanti, fu davvero complicato discernere dei precisi punti di ancoraggio all’interno della fusion, che perse il suffisso «rock» per divenire semplicemente «fusion», scivolando, negli anni ’80, su una sorta di levigato smooth jazz o di alternativa strumentale al funk da discoteca. Si pensi a buona parte della produzione GRP, che per un certo periodo coinvolse anche lo stesso Chick Corea. Dopo il festival di Woodstock – probabilmente la più grande manifestazione musicale meticcia della storia, in cui si unirono sotto il segno della tolleranza e della pace universale, musiche, razze e culture – personaggi come Sly Stone, che assemblavano jazz, rock e funk, divennero paradigmatici, specie nell’ambito della giovane popolazione afro-americana (e non solo), insieme ad altri musicisti che avevano mantenuto viva e pro-attiva l’esperienza «nera» legata alla tradizione soul: uno su tutti James Brown. Mentre differenti forme di R&B si espandevano in tante direzioni, attraverso fenomeni contrassegnati da una marcata componente urbana come il funk, genere scarno e tagliente, basato su testi essenziali, quando presenti, e giocato su potenti linee di basso e groove insistenti, regolari nella scansione ritmica e propedeutici al ballo di gruppo, tanto da diventare l’elemento aggregante e la voce rabbiosa dei quartieri malfamati delle metropoli americane, seducendo soprattutto le nuove generazioni di colore, così come aveva fatto il jazz negli anni Cinquanta e come avrebbe fatto l’hip-pop nel decennio successivo. L’incontro al vertice fra il jazz ed il funk determinò numerosi modelli espressivi che si diffusero come un virus sinciziale, finendo per condizionare anche l’intero comparto fusion. Uno dei tanti jazzman di alto lignaggio, che privilegiò l’incontro fra il soul-jazz e il funk elettrico, fu Donald Byrd.

«Fancy Free» di Donald Byrd, venne dato alle stampe dalla Blue Note, trasferita d’ufficio all’Ovest, armi e bagagli, dalla nuova proprietà, pronta ad intercettare tutte le ultime istanze della cultura afro-americana. Il nuovo concept sonoro di Byrd si materializzò, qualche settimana dopo la pubblicazione di «In A Silent Way» di Miles Davis, album fondamentale e predittivo che strizzava l’occhio e l’orecchio alla fusione a caldo tra elettronica, funk e jazz, segnando un cambiamento epocale nella discografia del trombettista. Il disco tracciò una nuova linea linea di confine determinando la fuoriuscita di Byrd dalle gabbie salariali dell’hard bop, grazie alla complicità di un risoluto Duke Pearson, abile nell’uso delle tastiere elettroniche. In «Fancy Free» vengono adottati gli stilemi del funk e dell’R& B piuttosto che quelli del rock Altri artisti ne seguirono le orme: Horace Silver, George Benson, Freddie Hubbard, Grant Green, Herbie Hancock, i Jazz Crusaders e molti altri. Strumenti elettrificati ed un pronunciato substrato ritmico caratterizzarono il nuovo assetto esecutivo di Byrd, ponendo l’accento sul ruolo predominante del basso e della batteria, mentre la tromba sembrava ricamare la stratificazione ritmica come un elemento alieno, rimuginando sui temi e incalzando i groove dei brani più movimentati. La medesima tecnica, come regole d’ingaggio differenti, venne usata da Miles Davis in molti progetti post-elettrici e più vicini al funk. In «Fancy Free», Byrd guidò un composito ensemble con Frank Foster al tenore e soprano, Lew Tabackin e Jerry Dodgion, a rotazione al flauto,il chitarrista Jimmy Ponder e il bassista Roland Wilson, Joe Chambers (tracce 2 e 4) e Leo Morris (1 e 3) alla batteria con l’aggiunta di due percussionisti: John H. Robinson Jr. e Nat Bettis. Ma il contrassegno saliente del line-up – come già accennato – fu il piano elettrico di Duke Pearson che domina sull’intera intelaiatura armonica nei quattro lunghi pezzi che costituiscono l’album, registrato fra maggio e giugno 1969, ma che fece capolino sul mercato all’inizio dell’anno successivo, comparendo nella classifica di Billboard degli LP jazz più venduti nel gennaio 1970.

L’opener, «Fancy Free», a firma Byrd, si snoda su un groove curvilineo dal sapore latino, magnificato dalle congas e dal flauto di Jerry Dodgion (presente solo su due tracce, la prima e la terza) e dagli assoli di Frank Foster al sax e di Julian Priester al trombone, nonché dello stesso Byrd alla tromba.. «I Love The Girl», è una ballata lineare, quasi poppish, ispirata alle canzoni da airplay radiofonico dell’epoca ed impreziosita da Pearson al piano elettrico. Gli altri due brani, per quanto innovativi, poggiano su un mood ancora post-bop, dove il gradiente di funkiness si mischia alle classiche improvvisazioni tradizionali. «The Uptowner» ha la sagoma di boogaloo arricchito da contrafforti funkified, con Byrd, Foster e Priester a sputare fuoco in prima linea come un drago a tre teste, incalzati dalla chitarra di Jimmy Ponder. «Weasil» si sostanzia attraverso un riff di basso ostinato e ripetitivo, adattandosi alla medesima linea strumentale del drumming di Joe Chambers, mentre la tromba di Byrd spicca il volo. In fondo, «Fancy Free» è ancora un disco di passaggio, una cuspide fra due tipologie di allineamento sonoro ed astrale, soprattutto essenziale per comprendere le mutazioni di un’era in rutilante fermento.

EXTRA LARGE

Donald Byrd – «Harlem Blues» (Landmark, 1988)

Nel 1988, quando Donald Byrd diede alle stampe questo disco per la Landmark Records aveva 66 anni dal 1972, quando aveva abbandonato il jazz mainstream, dedicandosi all’insegnamento ed alla promozione della sua nuova creatura, i Blackbyrds, gruppo dedito ad una mistura sonora a metà strada tra R&B classico e la più moderna funk-fusion. Erano passati cinque anni dalla sua ultima incisione discografica, inoltre, a conti fatti, ne erano trascorsi quindici dal momento in cui aveva abbandonato i ripidi sentieri dell’hard-bop; soprattutto aveva trascurato il suono della sua tromba, unico ed inconfondibile, elemento caratterizzante di moltissimi set nell’epopea d’oro del jazz anni ’50 e ’60. Volendo cercare il pelo nell’uovo, il periodo di lontananza dallo strumento risulta evidente in vari punti dell’album, dove Byrd appare più come una sorta di demiurgo, di organizzatore della session e non più come quell’animale da palcoscenico dal temperamento irruento e dal sangue caldo irrorato di soul e blues. L’insegnamento e la gestione di un gruppo in pianta stabile avevano fatto maturare in lui altre convinzioni. Dando per scontato che a 66 anni non si possegga più l’impeto di un giovinetto, soprattutto quando si è appagati da una posizione istituzionale. In tutta franchezza, si ritiene che il vecchio leone della tromba abbia voluto deliberatamente dare spazio ai suo quattro eccellenti sidemen: l’altoista Kenny Garrett, il pianista Mulgrew Miller, il bassista Rufus Reid e il batterista Marvin «Smitty» Smith. Nonostante il nuovo assetto produttivo, il figliol prodigo, Donald Byrd, tentò un ritorno alle origini con un album nell’insieme di alto valore qualitativo, soprattutto tenendo conto del periodo in cui venne immesso sul mercato. In quegli anni trovare album jazz di questa fattura, distillati in purezza, era assai raro. Registrato il 22 ed 24 settembre 1987 al Van Gelder Studio con la produzione di Orrin Keepnews, «Harlem Blues» si basa tre composizioni originali che fanno da contorno ad un riuscitissimo omaggio a Thelonius Monk, attraverso una lunga versione di «Blue Monk», che da sola vale il prezzo della corsa ed una splendida interpretazione di «Harlem Blues» di WC Handy, sicuramente il pezzo più riuscito dell’album; interessante risulta anche la scelta del terzo standard, «Alter Ego» di James Williams. Due brani sono firmati da Byrd, «Fly Little Bird» e «Sir Master Kool Guy», mentre «Voyage à Deux (Journey For Two)» fu scritta per l’occasione dal sassofonista Kenny Garret. Questo album fu l’inizio di una nuova partenza e non ci volle molto, perché il vecchio Donald Byrd si scrollasse un po’ di polvere di dosso.

Donald Byrd