Il pianista marchigiano rimescola le carte in tavola ed aggiunge nuovi e più distintivi connotati al suo iter musicale, con un lavoro di pregiata fattura newyorkese, accentuando talune scelte che appaiono più audaci e più indagatrici rispetto alla sintassi canonica del jazz contemporanea.

// di Francesco Cataldo Verrina //

In un’epoca di iperproduzione discografica, uno degli elementi fondamentali per un disco, al netto dei valori in campo, è l’atmosfera che riesce a liberare. Emiliano D’Auria è un musicista evolutivo e lungimirante, il quale riesce a dare ai propri dischi un taglio ed un mood internazionale. Non a caso a distanza di un anno dalla pubblicazione di «First Rain», album prodotto e registrato in Norvegia per la Losen Records, il pianista marchigiano rimescola le carte in tavola ed aggiunge nuovi e più distintivi connotati al suo iter musicale, con un lavoro di pregiata fattura newyorkese, accentuando talune scelte che appaiono più audaci e più indagatrici rispetto alla sintassi canonica del jazz contemporanea.

Per la sua sesta uscita discografica da band-leader D’Auria, in veste di pianista e compositore di tutti i brani, guida un quintetto internazionale costituito da accreditati strumentisti americani: Philip Dizack alla tromba, Dayna Stephens al sax, il contrabbassista Rick Rosato (di chiare origini italiane) ed il batterista Kweku Sumbry. «The Baggage Room» edito dall’etichetta Via Veneto Jazz di Matteo Pagano, in primis, è un omaggio a tutti i migranti italiani ed europei che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, hanno abbandonato la loro terra natia per cercare una vita più dignitosa in America: sovente, uno strappo non facile dalle proprie radici, permeato di sofferenza, per quanto alimentato da un barlume di speranza. Scorrendo le nove tracce dell’album si avverte una tensione narrativa dettata dal soggetto ispirativo, in cui i desiderata del pianista, girovago alla ricerca di nuovi universi sonori, si fondono con le aspettative dei migranti di un tempo, in cui paure inconsce, sogni, dubbi e desideri erano sostenute dalla speranza di un approdo ad una condizione umana e sociale migliore. La Grande Mela diventa così il luogo ideale, lo scenario perfetto per captare quegli umori e quei sentori capaci da dare al connettivo sonoro l’energia propulsiva per contemplare il motivo ideale su cui si regge il disco. Nondimeno l’America è servita al pianista marchigiano per ampliare la sfera percettiva delle dinamiche jazzistiche, attraverso quel crogiolo di razze e di culture che da sempre animano una comunità cosmopolita come quella di New York. A tal fine, la presenza di musicisti statunitensi conferisce autenticità e credibilità al progetto.

L’opener, nonché title-track, «The Baggage Room», letteralmente «La stanza dei bagagli» – s’immagini la stiva di un bastimento che trasporava i migranti verso il nuovo mondo – stabilisce le coordinate sonore di un viaggio sulla scia di un’atmosfera di attesa, la quale si sviluppa progressivamente tramite un linguaggio fatto di multipli, che partono dal jazz contemporaneo di stampo newyorkese muovendo in vari direzioni dello scibile sonoro, mentre i fiati in prima linea, a tratti in maniera ostinata, sembrano narrare storie di umanità varia, sottolineate dal cadenzato fluire del pianoforte di Emiliano D’auria. A seguire «1891 Ellis Island», un punto di approdo, ma anche di cambiamento che si estrinseca facendo leva su una dinamica sonora incalzante ed esplorativa, segnata da un groove più metropolitano e da una narrazione tematica trasversale, inquieta e circospetta, tanto che l’approdo a «Temporarily Detained», teso a sottolineare la ferma preventiva a cui i migranti venivano sottoposti, sembra accentuare il senso di smarrimento e di tensione sulla scorta di un costrutto ritmico-armonico obliquo e pungente, fatto di cambi di umore e passaggi rapidi da un’atmosfera all’altra. «Searching For A New World» è una ballata mid-range in puro stile americano, che apre qualche spiraglio su un nuovo habitat sonoro ed umano, soprattutto il piano del band-leder diventa più scorrevole. In «The Eye Man», introdotta dal cupo incedere del contrabbasso, la melodia sembra inizialmente riecheggiare un’ambientazione minimale, infittendosi strada facendo di pathos ad opera della struggente narrazione della tromba e del sax, mentre il pianoforte, con il suo fremente substrato accordale, e la retroguardia fanno da collante e da sostegno. «The Story Of Sacco & Vanzetti», imperniato su un costrutto sonoro avvolto in un’aura quasi cinematografica, proietta fra le pieghe dell’album la triste vicenda di due figure emblematiche dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. La narrazione strumentale sembra srotolare davanti agli occhi del fruitore l’insieme di difficoltà ed ingiustizie che i migranti di ogni epoca ed in ogni latitudine sono costretti a subire.

«The Long Way» si sostanzia come una ballata intima e crepuscolare, magnificata dal pianoforte di D’auria, fitta di cromatismi e sentori dal gusto vagamente mediterraneo, mentre i fiati fanno capolino solo nella parte finale, accrescendone liricità e vibrazione emotiva. «Human Connections» è un altro scandaglio profondo, caratterizzato da cambi di passo, discese ardite e risalite negli anfratti dell’anima, marchiato a fuoco da una melodia dai contrafforti italici, intagliata dai fiati con un aplomb tipicamente newyorkese, che tende a portare la ballad quasi su un tempo medio ed a liberalrla dalle catene del melodismo fine a se stesso. «Third Class», descrive quella classe di viaggio destinata ai migranti. Per contro, l’atto rievocativo avviene sulla scorta di un’architettura armonica di prima classe, che riporta in auge rimpianti e sospiri per quel mondo lasciato per necessita alle spalle, Dopo un inizio festoso quasi una danza popolare, i pensieri s’infittiscono e si dilatano mentre la nave si allontana, metaforicamente, dal porto. Per assonanza, la mente corre alle parole di una canzone di Francesco De Gregori, che diceva: «per noi ragazzi di terza classe che per non morire si va in America». Fortunatamente, Emiliano D’auria è andato ed ritornato dall’America con un prodotto vivido e brillante. In sintesi, sul mercato ci sono davvero pochi concept del livello di «The Baggage Room».