// di Francesco Cataldo Verrina //
Si è spento a 95 anni, dopo una carriera lunga durata sette decenni, Benny Golson, sassofonista e compositore geniale, autore di standard immortali come «I Remember Clifford», «Along Came Betty» e «Whisper Not». Durante l’attività di musicista Golson ha sempre esercitato un stile basato sulla combinazione di tre elementi: grazia, calore e virtuosismo tecnico, influenzato in parte da John Coltrane, suo amico d’infanzia a Philadelphia. Fino al 21 settembre 2024, Golson era, tra i sopravvissuti della grande epopea del jazz del secondo dopo guerra, senza dubbio, il compositore vivente più significativo insieme a Sonny Rollins.
Carattere non facile, sia pure apparentemente quieto, sommesso e accomodante, Golson si era iscritto alla Howard University, che all’epoca insegnava solo musica classica, ma il sassofonista sgusciava fuori dal campus di notte per andare a suonare nei jazz club lungo la U Street di Washington, dovendo scavalcare un muro cinta piuttosto alto per tornare al suo dormitorio. Le controversie con gli insegnanti di musica al conservatorio lo spinsero a lasciare la Howard senza una laurea che, in seguito, gli fu conferita honoris causa dalla stessa università. Bennie Golson nacque il 25 gennaio 1929 a Philadelphia. Era molto giovane quando il padre lo abbandonò con la madre che per sopravvivere faceva la sarta ed era costretta a tenere in casa alcuni pensionanti. Quasi tutti gli zii erano amanti della musica, così il giovane Bennie, che in seguito cambiò legalmente la grafia del suo nome in Benny, iniziò ad andare a lezione di pianoforte a nove anni. La sua vita, però, prese una nuova piega dopo aver visto, all’Earle Theater di Philadelphia, la band di Lionel Hampton con Arnett Cobb al sax tenore. Così il giovane Golson chiese alla madre un sassofono. Nonostante il magro bilancio familiare, un bel giorno, la signora tornò a casa con uno sfavillante sassofono tenore per il figlio. Man mano che il piccolo Bennie s’impratichiva, acquisendo scioltezza ed abilità, frequentava un altro giovane sassofonista in erba un po’ più grande di lui, tale John Coltrane, il quale si recava spesso in casa Golson per esercitarsi con l’amico ed ascoltare dischi.
Per molti Benny Golson rimane legato ad «I Remember Clifford», un omaggio al trombettista Clifford Brown, amico ed un tempo compagno di band morto, nel 1956 a venticinque anni, in un incidente d’auto. Golson, che si trovava in tournée con Dizzy Gillespie in California, rimase particolarmente scosso dall’accaduto e passò due settimane ad elaborare una melodia toccante e struggente, che evocasse sia la tristezza che il tono allegro della tromba di Brown. Donald Byrd e Gillespie registrarono separatamente la composizione l’anno successivo. «Volevo che ogni nota riflettesse Clifford Brown», raccontò Golson qualche anno dopo. «E ho sempre detto che avrei voluto non averla mai scritta, ed avrei tanto desiderato che lui fosse ancora qui con noi oggi». Nel 1958, Golson si unì ai Jazz Messengers di Art Blakey, portando con sè diversi musicisti cresciuti a Philadelphia, tra cui il trombettista Lee Morgan, il pianista Bobby Timmons e il bassista Jymie Merritt, apportando ai Messengers un suono coeso e dinamico. Pare che sia stato lo stesso Golson a dare a Timmons alcune indicazioni su come scrivere e adattare «Moanin’» allo stile dei Messaggeri.
Nonostante il sassofonista fosse rimasto nell’organico di Blakey solo un anno, in quel periodo compose diversi pezzi diventati dei classici del jazz, tra cui «Along Came Betty», «Are You Real?» e «Blues March». Quest’ultima ebbe una gestazione, inizialmente, complicata. «Quando parlai per la prima volta ad Art della mia idea di una marcia, penso che fossi pazzo», raccontò Golson.. «Gli dissi che stavo pensando ad una marcia sporca, funky e unta, come quelle suonate alle partite di football dalle bande musicali dei college neri». Blakey era scettico, ma Golson lo convinse a provare la melodia allo Small’s Paradise, un affollato club di Harlem. «Lo spazio era limitato», ricordò, in seguito, Benny. «Ma non appena partì il ritmo uno-due, tutti si alzarono per ballare comunque, facendo cadere i drink dai tavoli. Art mi guardò esclamando: Beh, che io sia dannato». Contemporaneamente, Golson aveva avviato una carriera da solista, pubblicando otto album come band-leader tra il 1957 e il 1959, nello stesso momento, insieme ad Art Farmer, lanciava il Jazztet, un line-up dinamico che comprendeva anche McCoy Tyner al pianoforte e Curtis Fuller al trombone. Per questo progetto il tenorista riadattò le sue precedenti composizioni, ma ne scrisse di nuove, come «Killer Joe».
Nel 1962, Golson abbandonò l’attività jazzistica per concentrarsi sulla composizione a vari livelli, trasferendosi in California venne attratto dalle lusinghe del cinema e della televisione, settori evidentemente più redditizi. A Los Angeles scrisse molte colonne sonore, tra cui «Mannix», «Mission Impossible», «Room 222» e «M.A.S.H», arrangiando canzoni per Peggy Lee, Lou Rawls e Dusty Springfield; soprattutto si dedicò allo studio dei compositori classici: «Ho sempre amato la melodia. I miei eroi sono Puccini, Brahms, Chopin e Duke Ellington»; contemporaneamente smise di suonare il sassofono per dodici anni. Quando, a metà degli anni ’70, riprese in mano lo strumento Golson si accorse che non era più in grado di suonare. «Le mie dita erano quelle di un uomo morto; le mie labbra erano come pomodori maturi», raccontò in un’intervista. «Fu una vera lotta fisica. Non avevo più muscoli nelle labbra o nelle mascelle. … Suonavo così male». Il recupero fu lento e sofferto, ma nel 1982, il rinato sassofonista si ristabilì il sodalizio con il vecchio compagno d’arme, art Farmer, per una seconda edizione dei Jazztet, scoprendo un’inedita forma espressiva con il sassofono tenore, ma soprattutto sviluppando un tono smorzato, quasi ronzante, immediatamente riconoscibile. Tutto ciò gli concesse di avere una seconda possibilità, l’opportunità di scrivere ancora melodie immortali e di esibirsi fino a quasi novant’anni.
Nel 1996, Golson è stato insignito con il National Endowment For The Arts Jazz Master, il più alto riconoscimento in USA per i musicisti jazz. Il suo insegnamento morale è contenuto soprattutto in questa dichiarazione rilasciata qualche anno addietro al compimento dei novant’anni: «Anche ora che ho novant’anni, non so tutto quello che c’è da sapere. Quindi quando tengo lezioni magistrali, a volte come insegnante imparo dai ragazzi. È così che vanno le cose. È così che dovrebbe andare.Come mi disse una volta Sonny Rollins: Non c’è fine a questa musica».