// di Francesco Cataldo Verrina//

Con un margine di approssimazione, il mensile Rolling Stone definì questo disco come «le splendide sessioni inedite del poeta del jazz sonnolento». Ad onor del vero, «Blue Room» del 1979 mostra un Chet Baker in ottima forma, sia come trombettista che come cantante. In queste due registrazioni, originariamente realizzate al Vara Studio in Olanda per una trasmissione radiofonica, le istintive improvvisazioni di Baker, nella doppia veste vocale e strumentale, sono espresse con un inimitabile fraseggio leggero. Ciononostante, il trombettista gioca meno a fare il «piacione» languido e, nel complesso, alcune interpretazioni potrebbero apparire insolite e meno ispirate, ma sono tangibilmente più fresche e dinamiche.

Chet è affiancato da un trio variabile fatto di musicisti intercambiabili: in una prima sessione si distinguono il pianista Phil Markowitz, il bassista Jean-Louis Rassinfosse e il batterista Charles Rice, i quali lo avevano seguito più volte in tour, fornendo un supporto adattivo ed impeccabile. Nello specifico, le linee di walking e gli assoli di Rassinfosse diventano contributi creativi. Dal canto suo, Markowitz si propone, distintamente, con ingegnosi accordi ed assoli esuberanti che sviluppano un piacevole contrasto con il morbido incedere di Baker. Non sono da meno gli altri invitati al banchetto presenti nella seconda sessione: il pianista Frans Elsen, il bassista Victor Kaihatu e il batterista Eric Ineke che consolidano e magnificano alcune partiture con un lavoro preciso ed energico. Il primo set si apre con «Beautiful Black Eyes» di Lou McConnell e Wayne Shorter, dove Baker fiorisce con un assolo in crescendo, a cui Markowitz risponde con accordi svolazzanti. L’ondeggiante composizione shorteriana, dal passo quasi latino, favorisce l’inimitabile suono della tromba, soffiato come se Baker stesse in uno stato di grazia, almeno di comodità interiore. Il fraseggio si sostanzia attraverso una mescola di suoni riflessivi e di raffiche impulsive che non fanno sobbalzare più di tanto la dinamica complessiva dell’interpretazione ma la rendono ipnotica e viaggevole, anche grazie all’incisivo groove della retroguardia ritmica.

Markowitz su «The Best Thing For You» sembra davvero padrone della situazione, chiassoso e virtuoso al contempo. Baker e Rice si scambiano quattro vamp prima che il trombettista ripeta la melodia e la conduca ad un approdo sicuro. «Oh You Crazy Moon», di Johnny Burke e Jimmy Van Heusen, è un veicolo ideale per Baker che si cala nel suo naturale brodo di coltura, cantando e suonando con fraseggi rifilati e note medio-alte senza andare mai oltre misura. «Blue Room» è uno standard di Rodgers e Hart, registrato più volte da Baker. In tale circostanza, la classica ballata viene restituita al mondo in maniera aggraziata, con Baker e Markowitz che abbelliscono la melodia con estensioni cromatiche proponendosi con un atteggiamento mediamente cool. Per contro, «Down», composizione di Miles Davis, viene rimodulata da Baker con passaggi scalari rapidi e sapide scale di blues, mentre la sezione ritmica mantiene un groove muscoloso, da cui emerge il solito Markowitz.

Nel suo originale, «Blue Gilles», Baker si allunga distillando un assolo soave e millesimato che si prende tutto il tempo per filtrare, senza mai perdere in espressività, fino a tentare una sortita verso le cime più alte e tempestose del registro. Perfino Markowitz adotta un approccio graduale, concludendo un passaggio ostinato con un tocco di stile. Rassinfosse inizia quindi a passeggiare avanti e indietro durante il suo walking creando un ottimo contrappunto con il resto della cordata. L’atto conclusivo è affidato a Baker che, dopo una serie di riff, finalizza con con una lunga linea volutamente tenuta in sospensione. In «Nardis» di Miles Davis Baker presenta la sua idea melodica della costa occidentale, mentre Markowitz aggiunge un po’ di mordente nel suo accompagnamento, così come Rassinfosse e Rice risultano piuttosto assertivi. «Lomuscio Lou» è uno strumentale basato su un swing mezzo tempo, nel quale Baker conficca le sue note alte inclinandosi verso le terze di blues.

«Candy», canzone a firma Mack David, Alex Kraimer e Joan Whitney, era entrata da tempo nelle corde vocali di Baker per via della sua tipica struttura, in cui Chet nella parte canora imita il suono del suo assolo. «My Ideal» è un brano cantato, eseguito in maniera più trattenuta e cauta rispetto al convincente assolo di tromba. Il set si conclude con una versione spettacolarizzata di «Old Devil Moon» di Yip Harburg e Burton Lane. Essendo il pezzo più groove dell’intero album, «il vecchio diavolo» viene insanguato con un pizzico di esuberanza e spavalderia bop. A conti fatti, l’atmosfera complessiva del disco è perlopiù pacata ed il formato del line-up con tutti i solisti a turno potrebbe risultare troppo formulaic, ossia stereotipato, ma Blue Room è frutto di una estrema perizia collettiva, – potremmo dire professionalità allo stato dell’arte – un’istantanea sulle doti improvvisative che la musa Euterpe aveva concesso ad un artista, per molti versi discutibile, ma unico nel suo territorio di pertinenza.