Alcuni componimenti prelevati dal diario dei sogni shorteriani appaiono più ligi alla carta e alla partitura originaria, altri fanno leva su una libertà di cambiamento, sia pur ponderata e vigilata, che aggiunge un effetto novità, il quale diventa l’autentico valore aggiunto dell’intero costrutto sonoro…
// di Francesco Cataldo Verrina //
Fare un tributo, sia pure ideale ad un pezzo da novanta del jazz, è come volersi mettere a tutti i costi nelle scarpe di un altro, espressione anglofona che in italiano corrisponde all’infilarsi nei panni di qualcuno, sapendoci poi camminare agevolmente. Il Luca Gelli Organ Trio, calandosi nelle dimensione shorteriana indossa un bel paio di calzature comode, anzi gli stivali delle sette leghe con cui arriva molto lontano, narrando una serie di «Shorter Stories» attraverso un concept prevalentemente saxless. Il vantaggio e l’idea vincente sono insiti proprio nell’assetto strumentale rappresentato e garantito da Luca Gelli chitarra, Manrico Seghi organo Hammond e Giovanni Paolo Liguori batteria. Per rafforzare i contrafforti dell’idea di base hanno dato il loro sostegno, fungendo come le sponde di un biliardo per andare in buca e far punti, Dario Cecchini al sax baritono nella terza traccia, Pierre Do Sameiro al sax tenore e Cosimo Boni alla tromba nella quinta, infine Nico Gori al clarinetto sulla nona, per chiudere in bellezza un album che brilla per inventiva e personalità, scansando abilmente tutte le insidie di un lavoro tributaristico e di un ricalco manieristico.
L’idea dell’Organ Trio di Luca Gelli, chitarrista dalla zampata efficace, sa rimanere in equilibrio fra innovazione e tradizione, rispettando i pilastri fondamentali delle costruzioni del sassofonista americano ma adattandole ad una fruizione contemporanea. I tre sodali e gli ospiti a rotazione ricreano con strumenti e regole d’ingaggio differenti certe atmosfere tipiche della Blue Note anni Sessanta. L’opener del disco, «Yes Or Not», stabilisce al primo impatto le coordinate del viaggio: il suono acido e churching dell’Hamond scaraventa l’ascoltatore in un’ambientazione retro di tipo soul-jazz, senza infangarsi nella banalità del boogaloo a facile presa. Come racconta il chitarrista-leader l’idea nasce ed inizia a prendere forma prima della scomparsa di Shorter avvenuta del 2023. Le perdita di un’icona del jazz moderno, ha emotivamente accelerato il processo creativo e la concretizzazione del progetto che è stato registrato il 24 e il 25 agosto dell’anno orribilis (si riferisce alla morte di Shorter) presso gli studi Puccini Roads di Fucecchio (FI). Oggi grazie alla Dodicilune di Maurizio Bizzocchetti, «Shorter Stories» si prepara ad affrontare il mercato sotto ottimi auspici.
Scorrendo accuratamente le nove composizioni trattate, ci sia avvede subito che non c’è residuo di ricalco calligrafico o karaokeistico. Luca Gelli e compagni entrano ed escono dal sistema solare shorteriano con disinvoltura e destrezza, dimostrando come quelle scarpe (di cui sopra) stiano perfettamente ai loro piedi, anche se il cammino non risulta sempre pianeggiante. Tutto ciò non costituisce una deminutio capitis, ed è proprio sul terreno più impervio e accidentato che alcuni componimenti prelevati dal diario dei sogni shorteriani appaiono più ligi alla carta e alla partitura originaria, altri fanno leva su una libertà di cambiamento, sia pur ponderata e vigilata, che aggiunge un effetto novità, il quale diventa l’autentico valore aggiunto dell’intero costrutto sonoro, in cui Wayne è ridotto all’essenzialità almeno nella forma, ma che riemerge prepotentemente nel mood e nella sostanza. Ad esempio, «Infant Eyes», locupletata dalla chitarra di Gelli e dall’arcano suono dell’organo di Manrico Seghi, diventa una ballata sospesa ed onirica, riportando in auge tutto l’esoterico humus shorteriano. È quanto accade anche con taluni classici del repertorio del sassofonista americano, quali «Speak No Evil», «Night Dreamer» e «House Of Jade. Non vanno sottovalutate neppure le lodevoli capacità dei singoli musicisti che, specie nei momenti di trio dilatato, garantiscono una circolarità quasi mercuriale intorno al nucleo gravitazionale dell’idea. Ne sono una dimostrazione lampante «Adam’s Groove», «Fee-Fi-Fo-Fum, in cui la chitarra condivide abilmente la prima linea con gli strumenti a fiato, lasciando alla batteria e all’organo il controllo delle retrovie; così come «Armageddon» con l’inserimento di Nico Gori al clarinetto, assume i connotati di una suggestiva narrazione romanzata e cinematografica. «Shorter Stories» di Luca Gelli Organ Trio è un’insolita circumnavigazione intorno all’universo sonoro sulle orbite ellittiche di un jazz polimorfico che, sia pur seguendo l’ago magnetico di una bussola differente, alla fine riporta alle coordinate shorteriane.