Pur essendo completamente calato in una dimensione contemporanea, il quartetto cede alla tentazione di qualche lieve ed appena accennato riferimento al passato, pur senza mai scadere nel citazionismo ostentato e cialtronesco, tipico di molti prodotti dell’era del jazz 4.0.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Dieci composizioni originali frutto della creatività dei singoli componenti del line-up, con l’aggiunta di tre autori esterni di rinforzo, che si solidificano in un comune centro gravitazionale, dove confluiscono idee e soluzioni timbriche non facili da circoscrivere: gli elementi di libertà compositiva ed interattiva sono molteplici. Pur mostrando un passo a volte cadenzato ed intimo, il costrutto sonoro, a vocazione cameristica, non è di immediata e facile percezione, per quanto il perno melodico risulti pressoché stabilizzato, lubrificato ed ancorato alla struttura armonica. «La Persistance du Rêve» di Mario Mariotti, edito dalla Abeat Records, non è un disco festante, goliardico ed immediato, a base di bop-universitario del terzo millennio in pronta consegna, ma trova la propria forma mentis in sistema di plusvalenze inventive, quale diretta emanazione di quattro musicisti, per i quali perfino le pause, i rumori, gli interstizi ed i silenzi diventano elementi di sublimazione.
Nell’album sono presenti momenti di pura improvvisazione, sorgivamente elaborati attraverso un fluido by-play da parte dei quattro sodali, che sembrano comporre quasi in tempo reale. Non a caso «Untitled #1», «Untitled #2», Untitled #3 si caratterizzano come dei veri spartiacque, in cui i musicisti agiscono collegialmente frantumando le catene armoniche e trasformando il suono in una sorta di vibrazione estatica, che riporta alla mente alcune forme di free-jazz avanzato e di futuristico avant-garde. In realtà, il quartetto, nato per volere del trombettista-leader e compositore Mario Mariotti, vede coinvolti strumentisti di differente estrazione e generazione, nonché appartenenti ad arie aree stilistiche ed esperienziali talvolta distanti ma in grado di dialogare e di trovare un break-even-point sul terreno comune, talvolta impervio ed accidentato di un’improvvisazione tutt’altro che manieristica e schematica, seppur impostata secondo il metodo cameristico dell’ascolto costante teso alla confluenza. Nonostante sia completamente calato in una dimensione contemporanea, il quartetto formato da Mario Mariotti (tromba e flicorno), Roberto Olzer (piano), Andrea Grossi (contrabbasso) e Marco Zanoli (batteria), cede alla tentazione di qualche lieve ed appena accennato riferimento al passato, pur senza mai scadere nel citazionismo ostentato e cialtronesco, tipico di molti prodotti dell’era del jazz 4.0. Ad esempio «Monolith», a firma Massimo Falascone, è un fuga ayleriana inchiodata su una tavolozza armonica alla Cecil Taylor; mentre «Come se fosse autunno» di Giancarlo Schiaffini rievoca qualche atmosfera alla Don Cherry. La conclusiva «Lullaby For A Lion» a firma Dino Betti Van Der Noot si addensa in un magma sonoro dematerializzato che riporta alla mente le tipiche elaborazioni tetraedriche di Anthony Braxton.
Al netto di ogni valutazione estetica il materia implementato dai quattro musicisti da vita ad un repertorio di tutto rispetto, originale sia per composizione che per modalità d’impiego, soprattutto non mancano gli spunti riferibili ad opere pittoriche o letterarie, in cui viene accentuata la componente timbrica e cromatica. Basta ascoltare con attenzione le iniziali «Via Volta 28» composta dal band-leader e «Zephiro» firmata dal contrabbassista Andrea Grossi. Per contro «Die Irren (To R. M. Rilke), farina del sacco del pianista Roberto Olzer, alimenta un certo espressionismo visionario, basata com’è su una sospensione quasi onirica fatta di tinte leggere e con una melodia vagamente retrò, ruffiana ed a facile combustione: forse costituisce il momento più immediato dell’intero concept. Diversamente, «The Brave One», scritta da batterista Marco Zanoli, gioca sui contrasti e sui chiaroscuri, fra risonanza e dissonanza, tra sprazzi di melodia ed riff abrasivi e spigolosi. «La Persistance du Rêve» (Il persistere dei sogni) di Mario Mariotti non una passeggiata su un viale alberato con gli usignoli canterini in contrappunto, talvolta bisogna saper camminare sui carboni ardenti, ma è un un lavoro di stoffa pregiata, a metà strada fra sperimentazione e tradizione, in cui l’abilità degli attanti ed elle forze in campo rende ogni momento congruo ed attinente al concept, sia pure nella differente modularità interpretativa, quasi mai prevedibile e scontata.