// di Francesco Cataldo Verrina //
La serata di lunedì 15 luglio 2024 all’Arena Santa Giuliana si è aperta in un’atmosfera rilassata e con un pubblico attento e competente, tantissimi i musicisti devoti al verbum ivi convenuti. Accade quando sul palco ci sono quattro forti individualità di fama e di spessore mondiale, ognuna delle quali potrebbe fare «repubblica a sè», così come cerca di spiegare l’improvvido presentatore doppiato da Don Lurio, che si esprime a metà strada tra Mal & the Pimitives e Stanlio e Onlio. In verità quello di ieri sera non è stato solo un incontro al vertice tra Chris Potter, Brad Mehldau e John Patitucci, ma c’era anche un una sorta di «intruso» adattato alla circostanza, ossia Johnathan Blake, corpulento batterista dai tanti talenti, acclamato in ogni contrada per le sue imponenti e muscolari performance, ma con un concetto diverso delle dinamiche percussive rispetto al rinunciatario Brian Blade, assente giustificato, il quale avrebbe dovuto completare il quartetto ad immagine speculare del disco di Potter, «Eagle’s Point» che ha costituito l’ossatura del concerto. Non so quanti l’abbiano capito ma Johnathan Blake ha stentato non poco ad integrarsi nel gruppo fornendo a tratti un accompagnamento scolastico – a parte qualche assolo «scialapopolo» e spettacolare – alla medesima stregua di colui che ha imparato la parte qualche giorno prima ma non è organico al progetto.
Quella del Santa Giuliana è stata una magnifica serata jazz, al meno nel mood, pubblico attento, capace di applaudire al momento opportuno, avulso dalle convulsioni da click and touch e da isterismo poppish. Molti posti vuoti in platea, a dimostrazione che il jazz si basa sulla qualità e non sulla quantità. Non c’era il classico beota di turno, che ti dice in perugino: «Quil col chitarrone me piece ‘nco!», ossia quello contrabbasso mi piace molto. Soprattutto, è stata la serata di Chris Potter che ha saputo camminare sui carboni ardenti non tradendo mai la propria leggibilità e il suo afflato melodico grazie all’abilità di Patitucci nel contenere gli eccessi o i ritardi di Black; merito inoltre di un Mehldau retroattivo ed asservito ad un comping di lusso, molto più dinamico e «bop» del solito. Alcuni passaggi di consegne tra il pianista ed il contrabbassista italo-americano sono stati da accademia del jazz, ricucendo accuratamente la trama armonica per il decollo di Potter, in quella che potremmo definire la rinascita di un artista, amato dai colleghi e dalla critica, ma da molti ignorato e rimasto sempre a mezz’aria, nonostante fosse in possesso di un armamentario espressivo ed esecutivo in grado di porlo sul lineage evolutivo dei grandi sassofonisti jazz: da Dexter Gordon a Sonny Rollins, da John Coltrane a Wayne Shorter. Nelle finalità del concerto del Santa Giuliana c’era proprio l’idea di evidenziare al massimo la figura di Chris Potter: ad onor del vero, Brad Mehldau si è sacrificato non poco per favorire l’ascesi spirituale e sonora dell’amico sassofonista; ciononostante, i suoi assoli hanno mostrato ancora quel divino incanto concesso solo ad una schiera di eletti dagli Dei; John Patitucci ha dato il meglio di sé espellendo dal suo mammut a quattro corde una recondita e celeste armonia, caratterizzata da un melodismo espressivo non comune; dal canto suo Johnathan Blake ha fatto ciò che a potuto come, compensando con qualche singolare assolo.
Chris Potter snocciolando alcun gemme del suo ultimo album «Eagle’s Point» che, rappresenta un nuovo punto di partenza e non di arrivo, ha offerto al selezionato pubblico di Umbria Jazz la visione nitida di un musicista ultracinquantenne alla ricerca del tempo perduto. Un incontro al vertice fra titani che si sviluppa sul filo di uno spirito fortemente collaborativo ed inter pares, dove ciascuno degli artisti coinvolti è una fortezza con le sue torri svettanti, i suoi trofei, i suoi traguardi, la sua storia, ma dove il singolo genio affluisce al nucleo gravitazionale della medesima idea progettuale evidenziando una sonorità che nasce da una reale coesione di gruppo che, ad onor di cronaca, durante il concerto al Santa Giuliana è sembrata a tratti leggermente compromessa. Ne abbiamo spiegato già i motivi. Ma dal vivo, sappiamo bene, che è tutta un’altra faccenda, ci sono anche le variabili ambientali, come un suono talvolta imbarattolato e schiacciato da un eccesso di limitatori e compressori – e lo dico per gli audiofili – che servono a contenere le crisi di vuoto e le naturali dispersioni dall’arena che non nasce come un auditorium o una sala da concerti, ma come un campo di calcio, quindi convertito in una pista di atletica (è l’uso che ne viene fatto durante l’anno). Al netto di ogni discrepanza e dissonanza, nel concerto ci sono stati momenti emozionanti ed illuminanti sulle capacità del Potter balladeer, tra cui la dilatata versione di «Aria For Anna», una ballata da mille e una nota, calata nel miele millefiori, simile ad un’evocativa romanza che da sola è valsa il prezzo della corsa. Se non l’avete fatto, vi consiglio di comprare l’ultimo album di Potter, «Egle’s Point», con Patitucci. Mehldau e Blade.
La serata al Santa Giuliana è proseguita con un tributo a Gil Evans, onestamente non proprio a sua immagine e somiglianza, ma basato su un virtuosismo, a tratti ridondante, da parte di molti sopravvissuti, che devono mettere insieme il pranzo con la cena. Non amo le cover band, come non ho mai digerito le varie Mingus Dinasty o i surrogati di Duke Ellington. Se provate a chiedere a chiunque, a Perugia e dintorni, chi sia Gil Evans, vi risponderà: colui che ha suonato con Sting in quel memorabile concerto a San Francesco allo stadio Renato cori, nonché protagonista di Mezzanotte a San Francesco al Prato. Troppo poco, un deminutio capitis per il musicista canadese, visto che ha fatto almeno quattro dischi epocali con Miles Davis. Se invece domandi a qualche addetto ai lavori – e ieri sera ce n’erano più d’uno al Santa Giuliana – di spiegarti l’importanza di Gil Evans nel jazz, comincia ad arrampicarsi sugli specchi parlando di questo e di quello, senza mai centrare l’obiettivo, per la massa è solo Gil Evans, bulo, Gil Evans! Il merito principale di Evans è stato quello di aver eliminato l’aspetto ludico dal formato grande ensemble. Per contro, tutto il processo evolutivo del musicista canadese si basa su un impianto orchestrale che rivoluziona i canoni della partitura, sgrassando gli eccessi e le ridondanze, modificando la canonica esposizione dei singoli solisti, attraverso una rotazione e una collegialità circolare tesa ad un’improvvisazione meno prevedibile e standardizzata, nonché antitetica a quella delle tradizionali orchestre swing ante-guerra, in cui l’assolo e l’unisono si ripetevano in maniera quasi ciclica e sistemica. A partire dal nonet del 1949 con Miles Davis, che produsse «The Birth Of Cool», sino alle sue opere più sperimentali degli anni Settanta/Ottanta che sposavano l’intellettualismo del free form ed il virtuosismo strumentale della fusion, Gil Evans ha sempre osato gestendo ensemble più o meno nutriti con lo stesso sincretismo di un piccolo combo.
La super band coagulatasi intorno al tastierista Pete Levine – uno dei membri dell’ensemble dell’arrangiatore canadese che si esibiva al Sweet Basil di New York – ha il merito essenzialmente di garantire qualche marca per la pensione ai principali musicisti delle orchestre di Evans degli anni ’70 e‘80, oggi piuttosto attempati, tra cui un inossidabile Danny Gottlieb batteria. La Gil Evans Remembered, straordinaria compagine nel suo esplosivo e sinergico ripetersi di assoli e di cambi di mood, ha trascurato il principale insegnamento di Gil Evans, ossia il dono della sintesi, maturato dal band-leder canadese anche durante la lunga e proficua simbiosi con Miles, secondo cui in un sistema orchestrale bisognava procedere per sottrazione e non per eccesso. Del resto, i superstiti dell’orchestra di Evans e le truppe aggiuntive, qualche moglie inclusa nel pacchetto, ha giocato troppo su un virtuosismo ostentato, in cui hanno ammassato qualsiasi cosa: fusion, free, bop, batucate percussive, bongo e swing, compreso il funk di Jaco Pastorius: il vecchio Mark Egan al basso elettrico ha cercato di fare del suo meglio. Il tutto proposto in maniera dimostrativa e scolastica, tanto da irretire i molti studenti di conservatorio presenti all’arena. In ogni caso, una serata di autentico jazz al Santa Giuliana che riscatta Umbria Jazz dai tanti rovelli dispersivi ed autocelebrativi. Però, se qualcuno vi chiede chi era Gil Evans, non dite più quel vecchietto con la fascia in testa che ha suonato con Sting allo stadio Curi, ma colui che, formalmente, avrebbe tracciato le linee di demarcazione del cool-jazz insieme a Miles Davis, elemento distintivo che possiede una valenza storica decisamente superiore.