// di Francesco Cataldo Verrina //
«Sono orgogliosa dei essere il sindaco della città, del jazz», dice sorridente la neo-eletta Vittoria Ferdinandi, che io ho votato e di cui sono fiero: il sindaco di Perugia ha un profilo umano e professionale di altissimo livello, difficilmente riscontrabile in tanti politici di prifessione, ma deve essersi fatta prendere dall’entusiasmo, poiché al suo insediamento sulla scranna più alta di Palazzo dei Priori, sono seguiti una serie di eventi come «L’Umbria che spacca», l’inaugurazione dell’arena al Barton Park, i festeggiamenti in memoria dell’impresario Sergio Piazzoli e un’edizione di Umbria Jazz nata sotto buoni auspici, merito forse del rinato clima «progressista», dopo dieci anni di retrivo oscurantismo culturale determinato da una destra tetragona e capace solo di proclami, a cui gli organizzatori locali di arte varia si erano adattati. Al netto di ogni posizione politica, molti si aspettano che Perugia torni ad essere la «città del buon vivere»: il jazz è stato confinato in angolo da tempo e congelato sistematicamente tranne il breve periodo di Umbria Jazz, ad eccezione di qualche piccola iniziativa privata nel corso dell’anno.
Per comprendere meglio gli attuali eventi, bisogna fare un passo indietro. Avevo conosciuto Alberto Alberti qualche anno prima ad una cena in cui c’era anche Joe Henderson. Lo rividi negli anni Novanta, quando non era più tra gli organizzatori di Umbria Jazz, e in un’intervista mi confesso: «Perugia ha una struttura, un tessuto sociale ed urbanistico decisamente antitetico a quella che dovrebbe essere l’idea di un festival jazz, basta guardare le altre manifestazioni internazionali, eppure a Perugia il jazz funziona più che a Bologna, Milano o Roma. Me ne resi conto la prima volta nel 1973 e ne ebbi la conferma negli anni successivi». Cara Vittoria, Perugia non è la città del jazz, ma avrebbe potuto esserlo. È chiaro che un’amministrazione di «sinistra», aperta e lungimirante, potrebbe recuperare molto terreno perduto dando delle differenti linee di indirizzo ad una manifestazione che è diventata una bella vetrina per pop-star di lusso che chiedono cachet in lingotti d’oro massiccio, tanto che il costo del biglietto all’Arena Santa Giuliano ha raggiunto dei costi parossistici. Certo a molti questo mio dire potrebbe apparire come un esercizio retorico. Così fan tutti, tuoneranno i giannizzeri del contabile di turno. Chi ci fa più caso in questa società ammalata di benessere: settanta/ottanta/novanta euro per stare un paio d’ore scarse con lo smartphone in mano a fare dilettantistiche riprese verticali, o scattare foto mosse e appannate dalla ditate sullo screen; è la ratio post-consumistica, del superfluo che supera il voluttuario e che porta molti a pensare che possa e deve andare bene così; è il culto del divo e non l’amore per la musica a spingere queste persone a partecipare all’evento: il jazz è un’altra faccenda, una differente dimensione psico-fisica. Il jazz non ha bisogno di quantità ma di qualità.
Il fatto che dodicimila persone siano accorse a tributare onori e gloria a Lenny Kravitz, non è un successo, ma un fallimento per il jazz. Per contro può essere considerato un successo nell’economia complessiva di Umbria Jazz. Qualche discrepanza c’è in tutto questo trionfalismo, o dissonanza per usare un termine jazzistico che è il contrario della risonanza, ossia quando la melodia segue alla lettera il sistema accordale. Fermo restando che a qualcuno Umbria Jazz possa piacere così com’è e che debba tranquillamente continuare in siffatta maniera all’infinito. Va evidenziato, però, che il tema melodico, quando c’è, e l’armonia gestionale a volte viaggiano su binari differenti e la dissonanza diventa assordante come nel disco più estremo di Anthony Braxton. (Non me ne voglia il professore). Galliano, Krarvitz, Chic e Toto e altre simili amenità riempitive non fanno di Perugia la città del jazz. Vogliamo dirla proprio tutta: i Perugini, soprattutto quelli che vivevano e vivono all’interno della cerchia muraria, non hanno mai amato questa manifestazione; per i tanti che salgono al colle dal contado diventa solo un modo per affollare le vie del centro e godere di uno «struscio» in un caos surreale da bicchiere di birra in mano, tra bambini in passeggino storditi dai watt emanati dei vari stage, cani spaventati e qualche gagarino a caccia di straniere. Tutto ciò fa bene all’economia del centro storico e offre ai turisti l’illusoria sensazione di una città vitale abbacinata dal desiderio di mostrare e dal consumo sfrenato di cibo e bevande ad ogni ora del giorno, una bulimia da benessere peristaltico con con il Riopan a portata di mano o da italico gene della fame: c’è chi mangia orride pizze scongelate alle quattro del pomeriggio, la caprese in gommapiuma alle due di notte o un tagliere di salami da iperdiscaunt, sbustati all’uopo e spacciati come opere della sapienza contadina. Tutta questa fauna umana, che vaga per Corso Vannucci e dintorni come le onde di un mare increspato dal vento, è sempre ignara del concetto di jazz, accalcandosi in semicerchio intorno ai tanti busker che suonano hillibilly e country-rock . Il tempo di permanenza degli astanti occasionali – calcolato e documentabile con riprese video – davanti agli stage dove si suona musica dal vivo, non supera i sette minuti, poi si ripiega su un panino accompagnato da una montagna di patatine fritte con l’olio di palma, mentre un odore nauseabondo di cipolla bruciacchiata invade le narici degli avventori dislocati fra i Giardinetti Carducci e il Brufani, mentre in Piazza della Repubblica il modulo abitativo riservato alla radio ufficiale dell’evento sembra oltremodo eccessivo, poichè per l’intera giornata non vengono trasmessi quasi mai dischi jazz.
Il vero problema di Umbria Jazz è questo iatus profondo che si è creato tra lo stomaco e la mente, tra il cuore, la passione per la musica ed il freddo calcolo numerico. No, assolutamente, no, cara Vittoria, Perugia non è la città del jazz, ma di Umbria Jazz e, per importanza, oggi supera solo Terni e Orvieto. Per concludere, ritorniamo ad Alberto Alberti, personaggio chiave per l’affermazione mondiale del festival, oggi cancellato perfino dal sito ufficiale di Umbria Jazz: in quell’intervista Alberto mi faceva notare che Perugia per la sua struttura tardo medievale, ricca di storia e capolavori artistici, urbanisticamente angusta e con una viabilità complessa, predisponeva invece gli artisti ad un tipo di performance particolare, li rasserenava, gli dava la possibilità di fare shopping a due passi dall’albergo, andare al ristorante che preferivano, frequentare i negozi di dischi, lasciare autografi e firmare le copie dei loro album. Lontani dai mega-raduni americani e nordeuropei, i più grandi jazzisti di molte epoche si ritrovavano in una sorta di naturale set cinematografico: questa impressione fu riferita anche da Charles Mingus. Perugia ha smarrito da tempo questo fascino, lasciandosi irretire dalla slot machine dei numeri e dei guadagni, dell’autoreferenzialità, lontana anni luce dall’etica delle origini, sostituita dall’estetica della forma, talvolta priva di sostanza, almeno jazzistica. Oggi Perugia, pur conservando il trofeo della primogenitura, ha perso la centralità, accerchiata com’è da un’infinità di manifestazioni simili create con lo stampino. Qualcuno continuerà a dire che adesso si fa così: cosi è, se vi pare. Tu, però, cara Vittoria, non farti irretire da festeggiamenti, celebrazioni, numeri e lustrini, non ci deludere subito. Perugia non è più la città del jazz ma solo di Umbria Jazz, di cui siamo tutti orgogliosi.