…dal contesto sonoro emergono pennellate cromatiche in cui le tonalità risultano perfettamente mescolate. In sintesi, trattasi di una musica frattalica apertamente free form che non disdegna la pedalata assistita dell’elettronica.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il jazz contemporaneo possiede una «libertà» espressiva non comune ad altre epoche disponendo di una sorta di porto franco in cui operare incrociando mondi possibili e impossibili e guardando al passato ed al presente attraverso una genetica molecolare in divenire che apre sovente molti scenari futuribili e predittivi. Tutto ciò può essere un vantaggio o un limite, a seconda che le varie componenti e le relative tematiche trattate siano più o meno giustapposte, ben incastrate e concettualmente coerenti. Domenico Rizzuto, trombettista e percussionista, agisce all’interno di un microclima sonoro, apparentemente svincolato e non facilmente catalogabile, in cui, però, i molteplici tasselli del mosaico creativo sono perfettamente posizionati. Se non avessimo altre informazione su questo brillante artista calabrese, potremmo dire che la sua musica possegga un effetto «colorizzante», dove dal contesto sonoro emergono pennellate cromatiche, in cui le tonalità risultano perfettamente mescolate. In sintesi trattasi di una musica «frattalica» apertamente free form che non disdegna la pedalata assistita dell’elettronica.
Nel suo ultimo lavoro, «The Music Of Tony Slim Dominick», pubblicato da qualche settimana dalla Caligola Records e caldamente sostenuto da Rumori Mediterranei, Il festival jazz di Roccella Jonica, Rizzuto compie un volo pindarico fra Tropea e New Orleans, passando per il Molise, ma soprattutto facendo leva sul legame fra musica e ruolo sociale del jazz, nonché sull’interazione fra emigrazione storica e rappresentazione di taluni valori della tradizione culturale italiana. Nel caso di Rizzuto, più che di contaminazione è d’uopo parlare di confluenza di universi ed epoche sonore differenti. Il musicista di Tropea muove dalla rielaborazione in chiave moderna di «Patrema», un blues che, nel 1959, Giose Rimanelli, scrittore e docente americano originario di Campobasso, aveva dedicato al padre abbinandolo ad uno dei suoi libri, «La posizione sociale». Partendo dal pezzo-guida del suo progetto, «Pàtrema», il trombettista calabrese ha deciso di ricostruire e ricontestualizzare in ambito contemporaneo, quattro brani strumentali scritti dal nonno di Rimanelli, Tony «Slim» Dominick, ombrellaio girovago ed apprezzato cornettista, vissuto alla fine dell’Ottocento, aggiungendo altre due composizioni di pregevole fattura e magnificamente eseguite dalla Domenico Rizzuto Electro Jazz Ensemble che, oltre alla presenza del band-leader (tromba, flicorno, arrangiamenti ed effetti elettronici) vede la partecipazione di Elisabetta Mattei (trombone), Alberto Brutti (basso) e Fabrizio Ferazzoli (batteria). Nell’unico brano non strumentale, «Pàtrema», la voce di Rimanelli è stata rielaborata al computer, ma il passo dal dixieland al jazz elettronico non è stato breve. Il tragitto sonoro si basa su uno studio profondo, su una conoscenza millimetrica dello scibile jazzistico e delle nuove tecnologie abilitanti e dilatanti. In effetti, i tre musicisti che sostengono Domenico nell’impresa suonano rigorosamente in acustico, mentre l’elettronica funge da stimolo e da contrasto sviluppando atmosfere alquanto suggestive.
Pur Partendo dai vecchi spartiti di Tony Dominick, Rizzuto propone una sua forma mentis esecutiva ed interpretativa ed una regola d’ingaggio distante anni luce da qualunque stereotipo, supportato sinergicamente dalla trombonista Elisabetta Mattei, che diventa una sorta di alter ego. I loro dialoghi sono serrati e senza aria ferma, quasi una battaglia all’ultimo respiro. Per tutto l’album Rizzuto fissa i paletti di una sonorità assai personale, dominando agevolmente l’uso dei live electronics, ma soprattutto senza mai farsi irretire dai fantasmi del passato. L’opener «Pink, Red and Blue» scatta subito con una dinamica galoppante fatta di riff brevi ed ostinati, a quali fa da contrappunto un suono mutizzato dal sapore retrò. Lo svolgimento tematico procede con una cadenza marciante, su cui l’intreccio dei fiati narra una storia d’altri tempi attraverso un moderno plot espositivo, dove le dissonanze subissano le risonanze, senza però che il caos oltrepassi mai l’ethos, mentre il groove s’infarcisce di iniezioni di elettronica misurata e mai debordante. «Parish Prison Blues» è un tema languido e strisciante, progressivamente dematerializzato e ricostruito con un afflato ornettiano, nel mood ma non nella tecnica. Il flusso melodico si dipana attraverso reiterati cambi passo, a cui contrabbasso e kit percussivo fanno da indicatori di marcia, mentre affiora in superficie perfino qualche essenza davisiana fino allo spartiacque determinato dal trombone che istiga il piccolo ensemble ad un crescendo quasi orchestrale di tipo ellingtoniano: la suggestione c’è e non solo quella. «Patrema», il leitmotiv da cui muove l’intero progetto, s’invola sulle ali di una melodia dal sapore italico e, dopo alcuni riff di trombone, compare la voce «virtuale» di Rimanelli in un molisano americanizzato. Progressivamente, lo speech in dissolvenza viene accompagnato da un groove funkified che sembrerebbe voler soppiantare l’antica struttura blues. «Ol Man From Kalena!» diventa un sorta di drum and bass, su cui s’innestano suoni di tromba e flicorno anticati dalla manipolazione elettronica, fino a quando il band-leader non trova la chiave melodica della partitura con un’intensità struggente e soulful a facile combustione, tanto da ricordare talune composizioni acid jazz degli anni Novanta. «Lost Baby Blues» è un’elegia sotterranea segnata da bordature elettroniche e da rimandi al passato, in cui la sordina crea un’aura brunita di sospensione, affrancata da ogni vincolo spazio temporale: il groove metronomico e qualche ricamo elettronico ci ricordano, però, che siamo negli anni venti del terzo millennio. «Galaxy Express», il primo dei componimenti aggiuntivi, pur operando in linea con il concept, evidenzia taluni apporti distintivi, sospesi in un caleidoscopio di sonorità mutevoli e fluttuanti in una dimensione senza tempo, come polvere di stelle fra le galassie: tra forma e «deforma» i fiati amorevolmente complici tentano di solidificare il costrutto accostandolo il più possibile all’idea di partenza. «The Origins» è un tuffo nel passato della durata di cinquantanove secondi che condensa, come un’endovena ad effetto rapido, tutto lo scibile contenuto nell’album. «The Music Of Tony Slim Dominick» dell’Electro Jazz Ensemble di Domenico Rizzuto è un progetto distante dalle consuete rotte di navigazione: un rapsodia creativa, profondamente jazz nella sue catene di DNA.
