…al netto del titolo e del materiale compositivo adottato, è un lavoro indipendente da ogni prevedibile clichè e creativamente autonomo rispetto al suo paradigma ispirativo.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Wayne Shorter è stato nel corso dell’evoluzione del jazz moderno un fenomeno unico. Le motivazioni sarebbero molteplici, ma cerchiamo di enuclearne qualcuna: in primis Shorter possedeva l’innata tempra del compositore, raramente nei suoi dischi fondamentali ha usato degli standard o materiale composto da terzi, a meno che quella traccia non avesse un particolare significato e non si sposasse alla perfezione con il concept sviluppato in quel dato momento; aveva la capacità, quale dono di natura o esigenza dello spirito, di saper esplorare tutte le infinite possibilità offerte da ogni singolo accordo: ciò conferiva alla sua musica la totale assenza di deja-vu; in lui erano presenti elementi tecnici associabili ad innumerevoli vissuti precedenti, soprattutto nel suo approccio allo strumento, Shorter mostrava a volte l’eleganza e la nitidezza di Lester Young, altre la potenza di Sonny Rollins, altre ancora l’irrequieta voglia di sperimentare di John Coltrane, condensandone il meglio in un linguaggio inequivocabilmente personale.
L’approccio al jazz di Peppe Santangelo, giunto al quinto capitolo della sua discografia, pur muovendo da un coacervo di influenze che tagliano trasversalmente lo scibile sonoro legato al sassofonismo moderno, si solidifica in uno stile esecutivo fortemente caratterizzato. Cosi, mentre il sassofonista siciliano attraversa le coordinate dello Shorterismo senza mai impantanarsi nel ricalco, detta le proprie regole d’ingaggio ed impone il proprio modulo espressivo, sia pure nel rispetto del suo mentore ideale. «Plays Wayne Shorter» del Peppe Santangelo Quartet non è l’apoteosi dell’arte del coverismo fine a sé stesso e alimentato dal devozionismo, ma neppure una rilettura tributaria ed estetica del genio afro-americano. Per contro, siamo alle prese con una forma di frantumazione e reinvenzione melodico-armonica, in cui traspare l’estro compositivo di Wayne Shorter, ma da cui emerge soprattutto l’indole espressiva ed esecutiva di Santangelo e dei suoi sodali. Le varie componenti del costrutto sonoro, a tratti ampliate e rivitalizzate, vengono trasferite in una sorta di inedito habitat in base ad una relazione di contiguità spaziale, temporale o causale, al punto che il «contenuto», ossia il progetto del sassofonista di Sciacca, possa affrancarsi dal «contenitore» degli iniziali intendimenti del compositore losangelino. Peppe Santangelo, che si divide tra sax tenore e soprano, si avvale del sostanzioso contributo di Gabriele Orsi alla chitarra, Pierpaolo Salvagio al basso elettrico e Francesco Di Lenge alla batteria: un quartetto rodato e temprato da una prolifica ed intensa collaborazione a vari livelli.
Il distacco dal nucleo ispirativo di partenza emerge sin dalle prime note dell’album, in cui l’effetto diviene cosa altra rispetto alla causa. Bastano le prime note del brano introduttivo per sax solo a indicare le dinamiche dell’intera opera. «Gratitude», concepita dal sassofonista siciliano come un’assunzione di responsabilità (o quale manifesto programmatico), spalanca le porte ad un flusso sonoro inarrestabile che decreta l’attualità di Shorter, ricollocandolo in una nuova dimensione extra-temporale, tanto che «Yes Or No», incluso originariamente in JuJu» del 1965, ne diventa un prolungamento. Mentre il groove si discioglie nel flusso lavico del vorticoso incedere di Santangelo, la chitarra storce, distorce e si contorce calandosi in un impervio strapiombo psichedelico. «Speak No Evil», che rappresenta la punta di diamante dello Shorter in casa Blue Note, viene, dapprima, prosciugata della componente onirica, solidificata ed immersa in un lavacro purificatore, quindi stabilizzata attraverso un modulo che l’avvicina al mood dei Weather Report, dove basso e chitarra elettrica diventano propedeutici alla transgenesi. Il sassofonista di Sciacca interviene in maniera mercuriale e chirurgica sul parenchima shorteriano; innesta in esso inedite frasi melodiche; ne modifica la fisiologia e la fisionomia ritmico-armonica senza alterarne la funzionalità genetica ma, soprattutto, insanguandolo con una vitalità contemporanea e coinvolgente, mentre la sua affiatata equipe di lavoro gli consente di tagliare, ricucire, impiantare, rinvigorire il plot shorteriano e ricollegarne la trasmissione nevralgica al nucleo di partenza. Santangelo riesce perfino di ricreare ex-novo, per partenogenesi, un’originale formula narrativa ispirata dal sotterraneo esoterismo del musicista californiano. Nell’inedito tributo denominato «Wayne», sembra di sentire uno Shorter più vicino alla realtà aumentata: con buona probabilità, come egli stesso si sarebbe raccontato, se avesse voluto dare di sé una visione proiettata nel futuro.
Il quartetto gioca con la sintassi shorteriana, puntando più sull’eccezione che non sulla regola. Dunque, due classiche ballate, come «Iris», firmata Shorter ma lanciata da Miles Davis nel 1965 e «Infant Eyes», contenuta nell’album «Speak No Evil», sempre del 1965, diventano un tutt’uno fuso a caldo per tramite di un sincretismo analitico e non sintetico, tanto che «Infant-iris» fa appello ad una verticalizzazione ascetica che oltrepassa perfino il punto di non ritorno coltraniano. «Adam’s Apple», dall’omonimo album del 1966, vessillifero di un post-bop avanzato, sembra rigenerarsi nelle spire di un groove funkified, per poi insinuarsi negli anfratti suburbani di una metropoli pulsante, dove il basso elettrico di Pierpaolo Salvagio funge da spartiacque fra i vari cambi di passo, mentre il sax di Santangelo si libera dalle catene procedendo in maniera asimmetrica e dissonante al limite del free form. «Black Nile», contenuta i «A Night Dreamer» del 1964, tradisce un inizio volutamente post-hard-bop per trasformarsi, a metà percorso, in una struttura rock-jazz a PH acido in cui la chitarra elettrica di Gabriele Orsi diventa il deus-ex-machina ed il sassofono di Santangelo un mercenario senza terra, né legge, mentre basso e batteria gli guardano le spalle con un marcato senso dell’orientamento ritmico. «Plays Wayne Shorter» del Peppe Santangelo Quartet, al netto del titolo e del materiale compositivo adottato, è un lavoro indipendente da ogni prevedibile cliché e creativamente autonomo rispetto al suo paradigma ispirativo.