Un viaggio ideale nell’accidentato iperspazio del jazz, dove ogni condizionamento esterno, strutturale o congiunturale, diventa solo un pretesto per scoprire e mappare gli inesplorati sentieri del post-bop contemporaneo.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Da sempre il jazz si lega a problematiche sociali ed ambientali di vario tipo, trovando nella sola musica una forma espressiva alquanto convincente, non potendo contare nella stragrande maggioranza casi su un testo esplicativo. Gianluca Vigliar, giunto con «Eclipse» al suo terzo capitolo discografico, riesce a cogliere appieno alcune delle inquietudini dell’umanità riguardo il futuro dell’universo e della nostra specie. In particolare, in un momento in cui popoli di differente credo religioso, storia e cultura hanno ripreso a dialogare, anzi a litigare, con il linguaggio delle armi. Sono molteplici le spade di Damocle che incombono sul capo e sui destini del Pianeta Terra. Mi sovviene un bellissimo film americano, «Codice Genesi» con uno straordinario Dezel Washington, ambientato a trent’anni da una non improbabile catastrofe nucleare, in cui una giovane donna chiede: «Com’era il mondo di prima?». E l’attore afro-americano risponde: «Beh, difficile da spiegare! Comunque c’erano molte più cose di quelle di cui avevamo bisogno, ma non le abbiamo sapute apprezzare». Tutto si lega al filo della auto-distruttività degli umani. Se con «Plastic Estrogenus» del 2019 Vigliar aveva puntato l’obiettivo sull’inquinamento da plastica nei nostri oceani, con «Eclipse» ci conduce ancora più lontano a riflettere sui detriti spaziali e l’eccesso di satelliti lanciati dalla Terra che ingombrano il cosmo.
«Eclipse» è un concept basato su nove componimenti, lunghi e sostanziosi, di cui cinque sono farina del sacco di Gianluca Vigliar, due di Domenico Sanna, uno di Carlo Conti ed un altro di Mercedes Rossy, ognuno dei quali, anche grazie alla suggestione dei titoli, si lega perfettamente alle tematiche e alle riflessioni proposte dal sassofonista-leader. Il costrutto sonoro risulta quasi documentaristico e cinematico, riuscendo a rappresentare una serie di situazioni mentali, inquietudini psico-somatiche e sentimenti contrastanti che descrivono alla perfezione le incertezze del terzo millennio. Al netto del quadro emotivo, l’album si regge su una scrittura di confine che lega elementi della tradizione bop ad abili tentativi di scrutare nelle infinite possibilità offerte dal jazz contemporaneo. Senza mai frugare troppo nella soffitta dei ricordi e nella scatola del passato, Vigliar e i suoi sodali sviluppano in maniera modulare un sound complesso nelle armonie e negli arrangiamenti, talvolta al limite dello sperimentalismo, ma di facile combustione e di immediata fruibilità. Il sassofonista, in primis, si è appoggiato su una sponda sicura, il batterista Marco Valeri, collaboratore di lunga data, mentre il line-up si completa con l’apporto del pianista Domenico Senna e del bassista americano Ameen Saleem, già membro del quintetto di Roy Hargrove.
L’album si apre con «Not Again!», un hard-swingin’ dallo spirito libero ed arioso in cui il sax e il pianoforte intrecciano un dialogo privilegiato con diversi cambi di mood, ma lasciando alla retroguardia, basso e batteria di dire la loro con brevi assoli che fungono da rampa di lancio. «Electrostereo», introdotto dal sax quasi con un’aura di mistero shorteriana, viene ripreso ed ampliato nello spettro narrativo da una lunga progressione pianistica, a cui al cambio di passo, il sassofono fa da cesellatore con brevi riff simili ad un ostinato. «Music, The Answer» parte come una ballata esplorativa giocata su un tema melodico a facile diluizione, in cui il sassofono del leader si produce in un crescendo improvvisativo magnificato dal signorile corredo accordale fornito dal pianoforte e dalla retroguardia che non lascia aria ferma. Ottimo l’assolo del contrabbasso che fa da ponte al passaggio finale del sax. La title-track, «Eclipse», è la sintesi proteica dell’assunto filosofico che sostiene l’intero costrutto dell’album: universi sonori chiaroscurali che sovrappongono in una ballata profonda e mineraria che emerge gradualmente trascinando detriti e preoccupazioni che incombono sul mondo degli uomini. «Fe-On» appare come un’orbita circolare che gravita intorno ad una serie mutevole di suggestioni sonore, scandite su un piacevole swing mid-range, in cui sassofono e pianoforte trovano un algebrico equilibrio nel gioco delle parti. «Mani di fata» si caratterizza come un post-bob ad alta digeribilità implementato dalle digressioni del sassofonista-leader, a cui la retroguardia fornisce costantemente il necessario apporto di groove, dove persino i voicing del piano sembrano più rapidi e meno concilianti. Si procede, così, per tutto il tragitto a pie’ veloce, come Achille, fino alla chiusa finale decretata dal sassofono.
«August 25Th» è una ballata itinerante dalla melodia ariosa, un tentativo di parlare sottovoce ma esprimendo concetti chiari ed efficaci, mentre il sax di Vigliar, pur procedendo a passo felpato, sembra voglia annunciare l’arrivo imminente di un colpo di scena come in un film di fantascienza. Trama sonora s’infittisce con «Satellite’s Highway», una lunga Odissea sotto forma una ballata, la quale crea ancora un’ambientazione sospesa, ma siamo giunti già nelle viscere del cosmo ad altezze siderali. Al netto delle suggestioni filmiche, i quattro sodali si muovono con la leggiadria di un’astronave spaziale intenta a schivare ingombri, detriti e polvere cosmica, mentre il sassofono guida il convoglio in maniera telepatica. Il flusso sonoro sembra ininterrotto e legato allo stesso filamento di DNA creativo, tanto che il line-up mostra estrema coerenza e compattezza preparandosi a planare in acque territoriali, in cui il movimentato zampillare delle note del pianoforte descrive le onde di un immenso mare. Sul finale, i venti si placano favorendo una quiete meditativa e rilassata, mentre il sax funge da scandaglio andando su e giù per gli anfratti armonici di «Lost Ocean». «Eclipse» di Gianluca Vigliar Quartet, pubblicato da A.MA Records, è un viaggio ideale nell’accidentato iperspazio del jazz, dove ogni condizionamento esterno strutturale o congiunturale diventa solo un pretesto per scoprire e mappare gli inesplorati sentieri del post-bop contemporaneo.