// di Francesco Cataldo Verrina //

Sappiamo bene che tutti i membri dell’AEC erano polistrumentisti tanto che nello stesso anno in cui venne dato alle stampe l’album «Tutankhamon», l’Art Ensemble Of Chicago suonò oltre cinquecento strumenti in un unico concerto Europeo. «Tutankhamon», una delle registrazioni seminali del cosiddetto jazz d’avanguardia, per lungo tempo sparito dalla circolazione (di recente ristampato più volte in varie edizioni con l’aggiunta di bonus-track), ma che costituisce una delle performance più convincenti ed originali di coloro che vengono considerati all’unanimità come i pionieri di un unicum espressivo ed esecutivo che travalicava il concetto di free jazz, ossia Lester Bowie: tromba, flicorno, ottoni vari e batteria; Joseph Jarman: sassofono contralto, sassofono soprano, sassofono basso, clarinetto, oboe, flauto, pianoforte, clavicembalo, chitarra e percussioni; Roscoe Mitchell: sassofono contralto, sassofono soprano, sassofono basso, clarinetto, flauto, fischietto, sirena, campane e percussioni; Malachi Favors Maghostut: basso, banjo, sitar e percussioni.

«Tutankhamon» venne registrato presso gli studi Polydor (Dames II) di Parigi, il 26 giugno 1969 e rappresentò un nuovo punto di partenza per i musicisti chicagoani, i quali aggiunsero più coerenza al procedimento, tanto che s’inizia a percepire il desiderio del gruppo per il suono puro, quanto meno più essenziale. È qui che «Tutankhamon» si eleva dall’urlo primordiale del free jazz trasformandosi in qualcosa di diverso, di più introspettivo e dematerializzato al contempo, mentre l’oggetto sonoro surclassa l’elemento estetico. Per comprendere la genesi di «Tutankhamon», è fondamentale fare mente locale sullo scenario dell’epoca. Gli anni ’60 in USA furono un periodo di grandi sconvolgimenti sociali e politici legati alla lotte per i diritti civili. Fu in questo periodo che il pianista Muhal Richard Abrams e altri artisti locali formarono, a Chicago, l’AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians) coinvolgendo buona parte della nuova generazione di jazzisti impegnati sul territorio. L’organizzazione cercava di promuovere quella che chiamava «great black music» scegliendo di prendere le distanze dalla parola «jazz», che riteneva avesse perso il suo significato nel descrivere e rappresentare l’identità musicale degli artisti e dei compositori di colore. Tra i membri dell’AACM, tutti piuttosto importanti, c’erano quattro dei cinque musicisti che, in seguito, avrebbero dato vita all’Art Ensemble Of Chicago: Lester Bowie, Joseph Jarman, Roscoe Mitchell e Malachi Favors. I quattro avevano suonato insieme in varie combinazioni e in diversi album pubblicati a nome di Bowie e Mitchell, diventando ufficialmente The Art Ensemble Of Chicago nel 1969, momento in cui partirono per la Francia, dove trascorsero i due anni successivi esibendosi e registrando, con una prolificità non comune, sette album solo nel ’69. Il loro primo album, «A Jackson in Your House» fu editato dall’etichetta francese BYG Records. Nello stesso anno seguirono «Tutankhamon» e «The Spiritual». L’innesto del batterista Don Moye all’interno del line-up sarebbe durato poco più di un anno, tanto che questi primi album risultano piuttosto insoliti, poiché tutte le percussioni erano suonate a turno dagli altri musicisti dell’ensemble. Si consideri inoltre che, mentre la maggior parte del free jazz dell’epoca optava per un approccio intenso e diretto, l’AEC tendeva ad un suono più immersivo, mescolato ad esplosioni rumorose, interiezioni vocali, slur blueseggianti ed accenni alla tribalità africana. L’album più introspettivo è certamente «People In Sorrow» (1969). La trama narrativa si mantiene tranquillo e meditabonda lungo tutto il suo svolgimento, ma raggiunge e mantiene un’intensità che rivaleggia con «Machine Gun» di Peter Brötzmann. «Tutankhamon», con le sue due lunghe suite che coprono le intere facciate del vinile (come dicevamo, nelle successive ristampe sono state aggiunte altre due tracce), non è da meno.

Il concept di «Tutankhamon» appare più imperniato sulla struttura ritmico-armonica, sul contrappunto e meno sulla melodia. L’intelaiatura musicale conduce l’ascoltatore, attento e predisposto alla trasversalità, in un itinerario sotterraneo e avvolgente che dischiude nuovi orizzonti all’espressività del suono come vibrazione naturale di un corpo elastico. L’album si apre con il borbottio prodotto dalla bizzarra e cartoonesca vocalità del bassista Malachi Favors, mentre le lunghe tracce di «Tutankhamon» sono infarcite di riff fiatistici sibilanti e strombazzamenti vari, eccentrici e concentrici, eclettici, dislessici (volutamente) e dissonanti, seguiti da lunghe improvvisazioni sine die. Nelle note di copertina, il critico John B. Litweiler, all’epoca collaboratore di Jazz Monthly, bypassa l’elemento musicale e, con ardimentosi giochi di parole, si spinge in un abisso di sentimenti ed immaginifiche suggestioni, tentando di far emergere un legame tra il jazz e l’Antico Egitto, quell’iperbolico e quasi umoristico ibrido di suoni tipico di Sun Ra, fatto di surreali personaggi che entrano ed escono dall’inquadratura. L’ensemble gioca sul contrasto dinamico enfatizzando, particolarmente, le capacità sperimentali del sassofonista Roscoe Mitchell e del trombettista Lester Bowie, mentre il percussionista Joseph Jarman utilizza una varietà di strumenti non convenzionali, tra cui strani oggetti di metallo e di legno non classificabili. Tra le due facciate, la seconda, che contiene «The Ninth Room», diventa il pezzo forte dell’intero concept. A pensarci bene, però, «Tutankhamon» è una struttura molleggiata e progressiva che sia allunga e si ritrae continuamente tra suoni casuali e battiti improvvisi che spuntano dal nulla con l’idea di creare un ritmo convenzionale appena prima di scomparire. La trama sonora è sinusoidale e geroglifica, a tratti alimentata da un barlume di raziocinio pentagrammatico; per contro, in altri momenti, risulta distante dall’ordine cosmico della piramide armonica, mentre i fiati s’inseriscono con piccole dichiarazioni tematiche fitte di cromatismi e variabili tonali, ma prive di tempo, inteso come un groove regolare che faccia loro da guida. Ciò che alla fine rimane nella mente del fruitore è un fluttuante mare magnum di suggestioni liquide, rarefatte e sospese che, in fondo, è ciò che gli Art Ensemble Of Chicago desideravano ottenere, ossia un effetto di totale astrazione dalla gravosa realtà delle convenzioni accademiche e dal manierismo tipico del jazz straight-ahead.

Art Ensemble Of Chicago