// di Guido Michelone //

GM: Chiedo a Francesco Cataldo Verrina, critico musicale ed autore di numerosi saggi, chi è l’ascoltatore di jazz oggi in Italia?

FCV: È difficile tracciare un identikit preciso, soprattutto perché viviamo in una società liquida, molto frantumata, dove i contorni fra le varie classi sociali, i gruppi d’interesse, le generazioni si sono molto assottigliati. Internet ha offerto molte più possibilità a tutti, quindi possiamo parlare di una sorta di ascoltatore trans-generazionale, ma non è facile individuare un prototipo di cultore del jazz. Bisogna piuttosto distinguere tra l’ascoltatore occasionale e il cultore fidelizzato attento e preparato; il fruitore puro, l’ascoltatore “meticcio”, convinto di scegliere il meglio in ogni ambito – quindi jazz, blues, rock, classica, cantautori – il quale sovente mostra una certa refrattarietà per i generi più easy come il pop e la musica leggera italiana. Per alcuni l’apprezzamento del jazz diventa una sorta di medaglia sul petto, un tratto distintivo per affermare gusti raffinati, ricercati e non banali; in genere questo coincide anche con il raggiungimento di un certo status economico e l’arrivo della maturità. Sappiamo benissimo che in origine questo genere di musica, in Italia, fu ad appannaggio esclusivo di un ceto medio-liberal-borghese, di taluni intellettuali, giornalisti illuminati, mentre a partire dagli anni ’70, stagione dell’antagonismo, il jazz venne equiparato al rock della contestazione giovanile, operaia e studentesca, che cavalcò molto la stagione del free e della fusion. Con il riflusso degli anni ’80 il jazz è ritornato nel suo alveo naturale, ossia quello di un genere apprezzato da gente matura e di cultura medio-superiore.

GM: Ma rispetto a quel recente passato più o meno ‘mitico’ o mitizzato dai sopravvissuti o anche da certi giovani odierni, come si vive il jazz in Italia?

FCV: Oggi la situazione non è molto cambiata, anche se i giovani che si avvicinano al jazz, nell’accezione più larga del termine, sono tantissimi, ma cercano strade meno battute rispetto al passato e alla tradizione: adorano la contaminazione specie il legame tra il jazz e l’hip-hop, il trip-hop e la street culture in genere; anche le donne si sono avvicinate a questo genere, un tempo ad appannaggio esclusivo degli uomini, con le dovute eccezioni. Attualmente ci sono nuove consapevolezze, soprattutto il jazz è cultura, acquisita e riconosciuta, si studia molto di più, però il dato anagrafico del fruitore medio rimane molto alto. Si potrebbe parlare di un individuo di età compresa fra i cinquanta ed i settant’anni, che spesso vive con un certo ‘nostalgismo’ i fasti del passato, mostrandosi poco sensibile alle nuove fenomenologie. Esiste anche un gap generazionale tra scrive di jazz come noi e le nuove generazioni. A volte si coglie anche una difficoltà di linguaggio o di comunicazione in tanti “scriventi”, che assumono un aspetto paternalistico, soprattutto nei confronti delle scelte operate dalle ultime generazioni di musicisti e soprattutto di fruitori di un jazz eccessivamente contaminato e camuffato.

GM: Una volta, per il jazz (ma non solo), c’erano le lettere al direttore (probabilmente filtrate, talvolta inventate dagli stessi redattori), oggi invece con i social esiste forse maggior libertà di parola e di opinione. Dirigendo tu «Jazz & Jazz» su FB che idea ti sei fatto dell’ascoltatore?

FCV: A mio avviso esistono ascoltatori piuttosto preparati, anche se spesso si pecca di nozionismo, schematismo e semplificazione. Generalmente all’ascoltatore medio non piace uscire da quella che viene chiamata zona comfort, non ama molto parlare di dischi e di artisti poco conosciuti, generi estremi, che in qualche maniera potrebbero far crollare talune certezze e scalfire le sicurezze acquisite negli anni. Ovviamente, i luoghi comuni si sprecano e le scuole di pensiero si moltiplicano continuamente. In un gruppo di discussione, tipico di FB, dove intervengono migliaia di persone ci sono anche giornalisti, scrittori, produttori discografici, organizzatori di eventi, tecnici del suono, Djs, soprattutto tanti musicisti; specie quest’ultimi a volte risultano poco attendibili, poiché come tutti gli artisti hanno un ego smisurato, quindi vorrebbero sempre che il baricentro della discussione fosse puntato su quella che è la loro esperienza diretta e indiretta con il jazz: non è difficile cogliere spesso le differenti posizioni di un sassofonista se si parla di Coltrane rispetto a un pianista e viceversa.

GM: Ci sono ovviamente due modi principali di ascoltare jazz (e la musica in genere): in concerto (dal vivo) e con supporti fonografici (vinile, CD, streaming, eccetera). Pensi di percepire le differenze fra i due approcci? Se sì, cos’hanno in più o in meno gli uni e gli altri?

FCV: Io parto dal concetto che un musicista qualsiasi in studio, quindi in un disco o altro supporto, fissi se stesso e la sua arte a imperitura memoria, quindi è ciò che realmente era o è; dal vivo l’artista è ciò che vorrebbe essere, a volte riesce ad andare al di là di se stesso, il più delle volte, il risultato, per quanto ricco di spontaneità, è inferiore a quello di qualsiasi supporto fonografico, sia tecnicamente che artisticamente. Io ritengo che live/studio siano due momenti complementari per l’analisi e la conoscenza di un jazzista. Anche se quelli della mia generazione non hanno avuto il privilegio di poter assistere alle esibizioni dei giganti del jazz, quando, negli anni ’80, ho iniziato ad occuparmene e studiare taluni fenomeni, parecchi di loro erano già morti. Quando vidi per la prima volta Miles Davis a Umbria Jazz, non era in un bel momento e non appariva ciò che mi sarei aspettato, ma il mio giudizio su di lui era già formato grazie ai dischi. Ecco perché dico sempre che la conoscenza della discografia di un musicista è fondamentale.

GM: Interessante e innovativo il tuo punto di vista, anche perché sembra che lo scopo del jazzista – parlo di quelli italiani che conosco – non sia altro che esibirsi in pubblico, forse per una questione di visibilità o per il ‘vile denaro’, visto che con i dischi jazz non si mangia…

FCV: Il concerto è un momento, al quale concorrono nel bene o nel male, elementi esterni, ambientali e tecnici; inoltre lo stato di salute fisica e mentale di chi suona è basilare. In ogni caso, quella che nasce da un concerto è un’idea fuorviante, spesso eccessivamente esaltante per i fans che sembrano invasati per aver avvicinato in terra il loro idolo; per contro la performance risulta quasi sempre piena di pecche e problematiche varie per i critici. A volte, però, da situazioni disastrate come il Concerto di Colonia di Jarrett possono nascere anche degli inattesi capolavori. Per concludere, ritengo molto più gratificante l’ascolto dei supporti discografici allo stato solido, per quanto mi riguarda, quasi solo vinile. Ai concerti ci sono sempre andato più che altro per lavoro, a volte ho preso appunti, quasi sempre mi sono perso l’effetto happening; soprattutto trattando la musica per lavoro non soffro di “fansismo”; talvolta ho provato anche un certo fastidio a dover fare delle interviste, perché gli artisti non sono sempre così lineari e disponibili a parlare.

GM: Ho come l’impressione (e talvolta la conferma dei diretti interessati) che i jazzisti italiani (forse non solo loro) ascoltino pochi dischi (e sempre quelli di una volta) e vadano molto poco ai concerti altrui. Quando nel 1961 venne per la prima volta Coltrane in Italia, i pochi jazzisti italici di allora erano tutti in prima fila. Mentre ad esempio ad Alassio – nel 1978 per il debutto del duo Braxton-Roach c’erano solo i critici e il pubblico. Come mai tutto questo?

FCV: Questo è molto vero, e soprattutto traspare dalle discussioni che si fanno in rete, ma io lo evinco dalle centinaia di interviste che ho fatto a musicisti di ogni tipo durante la mia vita. Normalmente gli artisti, non solo i jazzisti, hanno dei punti di riferimento calcificati nella tradizione o comunque lontani nel tempo e spesso rintracciabili in altri generi musicali. Non è raro che un jazzista ti dica di ascoltare musica classica, così come Mick Jagger ti potrebbe dire che preferisce la musica lirica o sentire da Bono Vox degli U2 che il più grande cantante, di tutti tempi e di tutti generi, sia Luciano Pavarotti. C’è anche un aspetto psicologico: i musicisti non amano i paragoni con i colleghi o i competitor coevi; specie in quelli che hanno successo, automaticamente, scatta un meccanismo d’identificazione con i grandi del passato. Ritornando alla tua domanda: i musicisti sono quasi sempre disinteressati ai nuovi fenomeni, con le dovute eccezioni, che percepiscono come un fastidio, un elemento di disturbo e di concorrenza, sia pure inconscio. Tu fai comunque riferimento a due situazioni completamente diverse. Nel 1961, in Italia, il jazz destava molta più curiosità in tutti gli addetti ai lavori, i quali non avevano ancora competenze così specifiche rispetto agli Afro-Americani, quindi vedere Coltrane era come assistere ad una sorta di discesa sulla terra di una divinità. Nel 1977, abbiamo fatto riferimento alla stagione antagonista, esistevano già ben altre consapevolezze; c’era stata una selezione naturale e politica dei musicisti, degli stili e delle tendenze. Ricordo, anche se ero un adolescente, quando a metà anni ’70, in una caotica edizione di Umbria Jazz, molti personaggi come Stan Getz vennero fischiati.

GM: Come credi sia cambiato il pubblico del jazz in Italia da quando tu te ne occupi?

Come dicevo prima, c’è stata una mutazione genetica attraverso gli anni, ma perché è l’idea stessa di jazz che è cambiata nel corso dei decenni. Possiamo parlare comunque di pubblico indifferenziato per ceto e per censo, anche perché le piattaforme web offrono possibilità d’ascolto low-cost e senza la necessità di avere apparecchiature sofisticate. Oggi chiunque può avere sottomano l’intera discografia mondiale e ascoltare ciò che si vuole senza dover comprare un supporto fisico. Ciò ha banalizzato molto anche il rapporto tra musica e fruitore, almeno in termini di approfondimento. Il pubblico del jazz oggi è più preparato e consapevole magari rispetto a trent’anni fa; ribadisco, però, che non è formato sostanzialmente da giovanissimi.

GM: L’idea dell’ascoltatore jazz medio, un ricco professionista in pantofole che alla sera, davanti al caminetto, sfogliando una rivista illustrata, ascolta un disco di Chet Baker, è tramontata? Quale altra immagine suggeriresti?

FCV: Oggi è cambiato anche l’aspetto fisico delle persone, la nostra società, pur essendo anagraficamente vecchia e gerontocratica, è giovanile nell’aspetto e nelle dinamiche. Soprattutto il modo di vivere, muoversi, consumare il tempo libero è diverso. Un cinquanta/sessantenne oggi si camuffa bene e spesso assume atteggiamenti pseudo-giovanilistici, come dire la generazione dei baby-boomers è la stessa che trenta/quarant’anni fa ascoltava il rock o la disco-funk. Magari il professionista di oggi sta in casa non più con le pantofole e la giacca da camera, ma ha scarpe da ginnastica e felpa; non legge un libro impegnato o una rivista patinata mentre ascolta jazz ma sfoglia un i-Pad. Esiste anche un ascoltatore molto raffinato, benestante e amante degli impianti hi-fi esoterici, ma più che appassionato di jazz, spesso si rivela come cultore del suono-jazz; non ascolta la musica come espressione dell’ingegno umano, ma le sonorità che scaturiscono dal proprio impianto milionario; molti di essi si professano intenditori di jazz, ma sono solo conoscitori di dischi scelti, secondo la vulgata, tra quelli che si sentirebbero meglio se ascoltati con un giradischi o altro supporto fisico, CD o nastro a bobine, Molte etichette jazz si stanno giocando molto questa carta dell’audiofilia patologica, attraverso costose ristampe in tiratura limitata, contrassegnate dal bollino “audiophile”.

GM: Si parla tanto di giovani e jazz, jazz & giovani. Ma è un vero o un falso problema?

FCV: Il problema esiste, se si pensa che il jazz possa essere per il giovani ciò che oggi rappresentano per loro il rock, il pop, l’hip-hop, la trap etc. La domanda giusta sarebbe: dove si trova l’attualità o non attualità del jazz, nel fatto che un ristretto numero di giovani lo ascoltino stabilmente e saltuariamente, ripescando i vecchi dischi del papà o del nonno o nella mancanza di una proposta coerente e attinente al loro universo di riferimento? Il jazz oggi annaspa in una palude di disperazione economica, nonostante il talento dei tanti musicisti attivi e l’impegno di piccole e volenterose etichette, nei confronti delle quali anche l’informazione ufficiale e i media che contano appaiono spesso indifferenti. Il nostalgismo degli “anziani” tiene vivo il fenomeno, ma poi si riduce ai soliti Coltrane, Mingus, Davis, Rollins, Evans, al massimo Jarrett e Corea. La vecchiaia e l’inadeguatezza del jazz non nascono solo dal dato anagrafico dei “divulgatori”: molta saggistica per esempio è noiosa e catalogatoria. Di base credo che il jazz sia una musica inadeguata al mercato dei giovani o all’universo giovanile.

GM: Hai avuto modo di constatare di persona questa inadeguatezza?

FCV: Ne parlavamo tempo fa in un negozio alla presentazione di un disco, dove erano presenti soprattutto venti/trentenni. L’atteggiamento paternalistico di tanti “vecchi cultori” del jazz non aiuta molto. I giovani si sentono distanti e non c’è un fattore d’identificazione “fisica”, ambientale, estetica e culturale. Qualcuno dirà bisogna conoscere la storia. Forse l’approfondimento, nell’ambito di attività ludico-evasiva come la musica, è una fase successiva, prima deve scattare la scintilla, il meccanismo di proiezione che porta il fruitore potenziale ad interessarsi a quella specifica forma d’arte e di cultura. Il cosiddetto “trasferimento della sensazione” (come si dice in pubblicità), che spesso non avviene e il coinvolgimento fisico-estetico è pressoché inesistente. Il jazz non possiede una forma espressiva calibrata per i nuovi strumenti del comunicare, soprattutto la maggior parte dei giovani non riescono a decifrarne il linguaggio non tanto strumentale, ma funzionale. Senza fare sociologia spicciola: il jazz per molti ragazzi diventa una sorta di ascolto solitario, di difficile condivisione che non prevede la connessione al gruppo. Tutto ciò nelle dinamiche comunicazionali post-moderne assume un aspetto assai rilevante.

GM: Hai presente i sei tipi di ascoltatore secondo Theodor W. Adorno? Le potremmo oggi applicare al jazz?

FCV: Ho sempre pensato che Adorno fosse persona del tutto inadeguata a parlare di jazz. Avendo io studiato sociologia, ho sempre trovato bislacche molte teorie della Scuola di Francoforte sul sistema mediatico, figuriamoci sul jazz; così come trovo aberranti quasi tutte le posizioni euro-centriche riferite al jazz, che rimane fondamentalmente patrimonio della cultura afro-americana e americana a disposizione del mondo intero. In questo mondo intero ci sono varie categorie di ascoltatori ma, come dicevo prima, non schematizzabili sotto un profilo sociologico, ma piuttosto sotto un profilo relazionabile alle scelte e al gusto. Sono essenzialmente quattro: i cultori del jazz tradizionale, quello riferibile al periodo delle big band ante-guerra, i quali fanno poche concessioni al jazz moderno se non per grandi linee, e sono quelli più anziani; i cultori del bop e dell’hard-bop a tutti costi, al massimo post-bop, specie se Blue Note et similia; quelli di tutto un po’, da Count Basie a Kamasi Washngton, da John Coltrane a Diana Krall e oltre il confine, per la serie questo è un disco bello, non capisco altro; gli intellettuali a cottimo, specie se ex-sessantottini, perfino qualche moderno freakettone, quelli che per me il free e la new-thing sono il massimo, ma anche la fusion, l’afro-jazz, il jazzmatazz, l’etno-jazz, il latin-jazz, perché il jazz è cambiamento, avanguardia, evoluzione e contaminazione!